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Channel: storiografia – C'era una volta l'«America»
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La storia americana e gli usi pubblici della storia in Italia

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Le linee centrali di questo scritto sono state esposte in inglese alla conferenza America: Still a European Power svoltasi a Bologna il 7–8 dicembre 2012, organizzata dal Professor David Ellwood grazie alla collaborazione tra l’Università di Bologna e la Johns Hopkins University, Bologna Center. La relazione mette esclusivamente in relazione gli sviluppi dello studio storico americanistico in Italia con i temi della vita pubblica. Non analizza quindi altri aspetti fondamentali dello scrivere di storia americana in Italia, come la struttura della nostra università, gli sviluppi istituzionali e relazionali, i caratteri logici e organizzativi dello scrivere di storia.

 

Data la situazione politico-storica del paese dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti non sono mai stati in Italia un tema di ricerca specializzato e neutrale. Piuttosto sono sempre stati visti alla luce di intense controversie pubbliche, e hanno stimolato prese di posizione intellettuali  fortemente favorevoli o altrettanto fortemente critiche. Il ruolo del paese d’oltre atlantico nella vita europea novecentesca è stato sempre più ampio, specialmente dopo la Seconda guerra mondiale; quindi il tradizionale immaginario americano del mondo europeo e italiano, che si estende da un modello di democrazia rappresentativa a un successo industriale di stampo privatistico, a una società dei consumi di mercato, a uno stile secolarizzato di vita e a un ruolo espansionistico nel mondo, ha contribuito a fare dell’America l’oggetto di forti attrazioni e repulsioni.

Supermercato, Stati Uniti, anni Quaranta

Supermercato, Stati Uniti, anni Quaranta

Negozio di alimentari, Italia, anni Quaranta

Negozio di alimentari, Italia, anni Trenta-Quaranta

I miti e la consapevolezza europea del passato americano sono stati certo marginali all’interno di questi immaginari d’America. Le stereotipizzazioni del “Vecchio” e del “Nuovo” Mondo portavano con sé visioni reciproche e auto-immagini ben salde e radicate. Anche la definizione di “Occidente” che emerse negli anni immediatamente postbellici veniva spesso dipinta come l’incontro tra l’esperienza e la saggezza storica europea e l’orientamento al futuro degli Stati Uniti. Gli atlantisti potevano magari vedere gli Stati Uniti come “l’erede, il promotore e il difensore dei valori occidentali” che la storia europea aveva sviluppato. Tuttavia, il principio che per gli Europei l’America era un sintomo di cose future, il grande teatro dove il dramma di tutti si inscenava con maggior franchezza, come aveva detto Cesare Pavese, dominava ancora la discussione pubblica e prevaleva nei paesaggi mentali non solo del pubblico, ma anche della maggior parte degli studiosi. La tecnologia applicata e le scienze sociali erano il marchio culturale dell’identità americana, mentre l’Europa era il frutto di una lunga stratificazione storica che plasmava il presente.

Lo stereotipo di un’Europa storicista opposta a un’America futurista ammette però sorprendenti eccezioni specialmente se visti sullo sfondo dell’Italia del dopoguerra. La Costituzione americana era la più vecchia del mondo mentre nella penisola la si stava appena riscrivendo dopo i drammi della dittatura e della sconfitta; gli Stati Uniti avevano alle spalle tre secoli ininterrotti di istituzioni liberali di fronte a un paese che stava cercando con difficoltà di ricostruire le proprie; il paese d’oltreoceano aveva iniziato la rivoluzione industriale che ne avevano fatto la prima potenza economica del mondo fin dal 1820, mentre l’Italia ancora cercava di uscire da una società prevalentemente rurale; inoltre negli anni Venti del Novecento gli USA avevano dato vita alla prima società dei consumi del mondo, mentre alla fine della Seconda guerra mondiale l’Italia era afflitta da una povertà che veniva sia dal passato che dalla guerra, e che non avrebbe parzialmente sperimentato la prosperità del consumo prima degli anni Sessanta; infine fin dalle origini gli Stati Uniti erano stati (con l’importante eccezione dei nativi americani) un paese di immigrazione e avevano accumulato una enorme esperienza in materia, l’Italia invece, per oltre un secolo paese di emigrazione, vedeva arrivare solo nell’ultimo terzo del ventesimo secolo importanti ondate di immigrati, e la novità creava enormi conflitti nella sua vita pubblica. L’America restava anche un deposito di lezioni storiche utile alla riflessione italiana ed europea come ha ancora recentemente dimostrato l’importante libro del giovane americanista francese Pap Ndiaye sulla condizione dei neri in Francia, fondato sul parallelismo con l’esperienza storica afro-americana.

La conseguenza è stata che, sebbene gli studi americanistici in Italia siano stati fondamentalmente antistoricisti, vi è stato sufficiente spazio nella vita pubblica per condurre alcune controversie relative agli Stati Uniti utilizzando argomenti storici. Frutto dell’incontro tra ricerca e forti orientamenti valoriali, lo studio accademico della storia americana in Italia è stato particolarmente toccato e vivacizzato da quello che viene definito “uso pubblico della storia”, intendendosi con questo riferimenti al passato che vengono a ritrovarsi nei discorsi politici, nelle narrazioni mediologiche o nelle occasioni celebrative dei rituali pubblici e monumentali con funzioni di legittimazione e forte contenuto di opinione.

Gli scritti degli storici americanisti italiani dai tardi anni Quaranta all’inizio dei Sessanta sono esempi calzanti di questa attitudine “militante”. Sia l’Italia che la Germania avevano necessità di ricostruire le loro istituzioni liberali dopo la fine della dittatura. Di conseguenza alla fine degli anni Quaranta e per la maggior parte del decennio successivo gli studi di storia americana in entrambi i paesi ripresero frequentemente la vecchia tradizione di focalizzare l’attenzione sul costituzionalismo americano e sulle istituzioni liberali di quel paese, una tradizione che risaliva a leaders europei dell’Ottocento, come Alexander von Humboldt e Giuseppe Mazzini, che avevano cercato al di là dell’oceano un’alternativa all’autocrazia monarchica europea. Ma, mentre questi storici immediatamente postbellici erano alla ricerca di stabilità liberale e ordine sociale, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta succedeva il contrario: una nuova generazione di giovani americanisti radicali, spesso coinvolti anche personalmente nei movimenti di protesta sia in Italia che talvolta negli Stati Uniti, celebrava “l’altra America” del ventesimo secolo con gli strumenti della triade concettuale di “classe, razza e genere”, e criticava duramente l’espansionismo internazionale e l’esclusivismo sociale del paese.

Il tema di questo scritto riguarda tuttavia anni più recenti ed esso fa qui un salto in avanti per focalizzare quanto è successo degli studi di storia americana in Italia e della loro relazione con la vita pubblica a partire dai tardi anni Settanta, che possono essere nuovamente visti come un punto di svolta. Come ha detto lo storico britannico degli Stati Uniti Michael Heale:

Come il 1945 rappresenta una svolta per la storia degli Stati Uniti in Europa, la metà degli anni Settanta ne segna un’altra. I cambiamenti di questi anni si collocano nel contesto della cosiddetta “crisi della politica” in concomitanza con il declino della fiducia nel governo che si registra nelle società occidentali, la minor crescita economica, l’apparente fallimento del keynesismo, la marginalizzazione della produzione o delle industrie “ferrovecchio” o dei sindacati, e la crisi energetica. Il missionarismo nel combattere le battaglie della vita pubblica che caratterizzò i liberali degli anni Cinquanta e i radicali degli anni Sessanta aveva perso terreno”.

La svolta fu ancora più radicale in Italia perché la sua scena pubblica era drasticamente cambiata a causa del terrorismo, della depressione economica, della crisi della tradizione comunista, della perdita di peso politico e sociale dei lavoratori dell’industria, mentre il paese andava secolarizzandosi e la polarizzazione ideologica si attenuava. Di conseguenza gli Stati Uniti cessarono di essere una focalizzazione centrale della controversia pubblica, lo schieramento occidentale del paese divenne più condiviso, una società dei consumi e della crescita economica fondata sul mercato divenne meno controversa, e la modernizzazione “americanizzante” incontrò meno opposizione.

Tutti questi cambiamenti non potevano non impattare anche sugli studi, e quelli americanistici in Italia andarono incontro a importanti modifiche che possono essere sintetizzate nel modo seguente:

  1. se pure gli studi americanistici non divennero mai un tema “neutro” di ricerca, tuttavia la temperatura del coinvolgimento pubblico degli storici americanisti si intiepidì, e un numero minore tra di loro divennero intellettuali pubblici, commentatori dei media o personaggi politici. Non di rado quelli che erano stati storici “militanti”, una condizione che negli anni Quaranta come nei Cinquanta ha contribuito alla creatività scientifica piuttosto che a una storiografia distorta, divennero “concerned scholars”, cioè professionisti ispirati da senso civico;
  2. vecchi e nuovi americanisti abbracciarono e praticarono la specializzazione scientifica in misura maggiore che nei decenni precedenti, cosicché l’innovazione interpretativa non derivò più in prevalenza dal peso delle problematiche pubbliche sugli studi, come era stato il caso nel recente passato, ma anche dagli sviluppi all’interno dei diversi settori dello studio storico;
  3. i temi di ricerca sensibili alle problematiche pubbliche cambiarono natura: soggetti precedentemente “caldi” divennero più distaccati o magari tramontarono, mentre nuove focalizzazioni emersero come centrali per la passione negli studi.

Se si guarda ai punti 1 e 2, cioè al minore calore politico e alla crescita della professionalizzazione storiografica, il paradosso è che la transizione fu realizzata soprattutto da quella che può essere chiamata la terza generazione di storici italiani degli Stati Uniti. Quando i loro studi mossero i primi passi nei tardi anni Sessanta, i suoi membri erano i più politicizzati e radicalizzati di tutti i loro predecessori, muovendo la loro critica contro gli Stati Uniti come paese ingiusto e imperialistico. E tuttavia il giudizio da dare sui loro risultati scientifici dopo quasi quarant’anni, quando essi sono alla vigilia della pensione, ha degli aspetti paradossali. A causa degli andamenti della vita pubblica italiana e delle nuove responsabilità accademiche assunte grazie all’espansione delle cattedre nei tardi anni Sessanta e inizio Settanta, proprio questa generazione si era mossa verso la specializzazione e la professionalizzazione. Seppure ispirati a principi progressisti, le loro ricerche sono state pubblicate nel linguaggio scientifico del razionalismo analitico e attraverso i canali della comunicazione accademica, in contrasto con le precedenti generazioni il cui quadro etico aveva spesso visto nella vita pubblica l’arena principale del loro lavoro intellettuale. Benché parte dei movimenti di protesta del decennio radicale, questa generazione ha incarnato ciò che Umberto Eco ha chiamato “l’americanismo di una generazione antiamericana”. Seppur critici della società e della politica estera degli Stati Uniti, molti dei loro sogni, sentimenti, desideri, racconti, simboli e stili di vita provenivano dall’America e ne parlavano. Il fatto stesso di appartenere a movimenti fluidi era già un segno di “americanizzazione della politica”, dato che la tradizione italiana era invece di partecipare a partiti fortemente organizzativistici.

L’influenza americana si esercitava anche sulla metodologia storica. I giovani americanisti italiani avevano potuto trascorrere, grazie ai trasporti più rapidi, al miglior controllo dell’inglese, alla maggiore disponibilità di risorse, lunghi periodi di studio nelle università americane. Avevano così entusiasticamente partecipato allo sviluppo della cosiddetta “New History” degli anni Settanta che, nelle parole di Eric Foner, aveva “riscritto” il passato americano e aveva ridefinito nuovi eroi e nuovi “cattivi”. I visitatori italiani erano non solo molto coinvolti dalle nuove interpretazioni che emergevano dai ranghi degli storici americanisti statunitensi, ma pensavano anche che le nuove idee fossero rilevanti, se opportunamente adattate, per stimolare la scena storiografica italiana piuttosto stagnante. Sotto questo profilo essi furono la prima generazione di americanisti “in between” che volevano partecipare alla scena storiografica sia americana che italiana, mentre i loro predecessori si erano intesi come storici europei che si rivolgevano alla comunità scientifica italiana, alle élite pubbliche e culturali e al più generale pubblico dei lettori.

Il vincolo con gli Stati Uniti aveva tuttavia un’altra conseguenza importante sul terreno delle modalità con cui gli americanisti italiani praticavano il loro mestiere. La “New History” ridefinì il passato americano, ma non abbandonò i fondamenti positivistici del fare storia negli Stati Uniti e le regole consacrate della narrazione accademica. Così, mentre negli Stati Uniti si affrontavano nuovi temi e fiorivano nuovi dipartimenti di storia sociale, dei neri e delle donne, i “new historians” condividevano ancora l’idea che la ricerca storica fosse un metodo sperimentale basato sulle prove, che l’accuratezza della ricostruzione fosse fondata sulla completezza della documentazione primaria, e che la monografia, il saggio, le note fossero i canali ortodossi per pubblicizzare i risultati raggiunti. La definizione “scientifica” della storia elaborata nella seconda metà dell’Ottocento, secondo cui gli storici erano prima di tutto professionisti accademici specializzati, continuò a prevalere malgrado la tempesta interpretativa.

La lezione che di conseguenza la terza generazione di americanisti italiani trasse dai colleghi americani non riguardò solamente le nuove interpretazioni progressiste, ma anche lo specialismo e la professionalità che erano spesso in contrasto con le definizioni tradizionali del fare storia in Italia. Quando gli anni Ottanta suonarono la fine del periodo radicale e i principi dello sperimentalismo storiografico fecero progressi anche nelle università italiane, gli americanisti progressisti della penisola entrarono nel nuovo clima più facilmente grazie alle lezioni che avevano appreso negli Stati Uniti e alla loro nuova mentalità professionale.

Se si considera adesso il punto 3, vale a dire il cambiamento nei temi di americanistica che generano maggiore attenzione e controversia, si deve anzitutto sottolineare che la caduta di tensione nella ricerca di un “usable past”, ispirato dalle problematiche pubbliche contemporanee e indirizzato a sostenerle, ha portato all’ampliamento e alla pluralizzazione dei temi di ricerca sia nel tempo che nello spazio. Per esempio, l’analisi del diciottesimo e diciannovesimo secolo americano ha registrato un ritorno di interesse, mentre la storia “militante” si era orientata prevalentemente sul ventesimo.

Tuttavia, dopo che ci si è rallegrati del maggior pluralismo dei temi storiografici, vi sono ancora varie tematiche “calde” che hanno conquistato o perduto terreno o hanno cambiato carattere.

Alessandro Portelli

Alessandro Portelli

La principale vittima del nuovo corso è stata probabilmente la storia del movimento operaio che fino ad allora aveva rappresentato un terreno privilegiato degli americanisti progressisti, un terreno dove l’incontro tra storici statunitensi radicali e i loro colleghi italiani era facilitato dalla condivisione della prospettiva classista. Dagli anni Ottanta la maggior parte dei cultori della materia si è spostata su altri temi di ricerca, mentre l’idea marxista della classe operaia come principale agente del cambiamento nelle società occidentale è fondamentalmente tramontata. La storia del movimento operaio è stata rimpiazzata (o si è spesso accompagnata) con gli studi sull’azione, l’autonomia, la creatività e i conflitti dei gruppi sociali più bassi e spesso marginalizzati, dove i concetti di razza ed etnicità hanno un ruolo molto ampio. Seppur in una percentuale molto limitata, americanisti italiani, come per esempio lo storico orale e culturale Alessandro Portelli, hanno però contribuito al ritratto multiculturale, pluralista e populista (nel senso americano del termine) della storia americana che è il risultato più significativo della “New History” degli anni Settanta.

Se razza ed etnicità sono rimasti campi storiografici frequentemente indicativi degli ideali progressisti del ricercatore, tuttavia le due aree del passato americano che hanno registrato maggiori coinvolgimenti ideali a partire dagli anni Ottanta sono i rapporti euro-americani e la storia delle donne. La prima va intesa non soltanto in chiave di relazioni diplomatiche o di politica estera, ma più ampiamente nei termini dell’influenza che gli Stati Uniti hanno esercitato sull’Europa per tutto il secolo ventesimo e più intensamente dopo la Seconda guerra mondiale, in aree come l’educazione, la tecnologia, la ricerca, l’innovazione intellettuale e, la più trattata di tutte, la cultura di massa e del consumo. La tendenza del dibattito storico sembra muoversi dall’idea dell’“impero irresistibile”, come suona il titolo dell’importante libro di Victoria De Grazia, e della modernizzazione europea alla luce dell’“American way of life”, agli studi sulle “ibridazioni”, vale a dire su come gli abitanti del “vecchio continente” hanno europeizzato e nazionalizzato le influenze provenienti dagli Stati Uniti. Opinioni più recenti, come quelle dell’europeista americana Mary Nolan, negano che l’Europa sia stata soltanto il ricevente del flusso transatlantico di idee, beni e persone, ma sostengono invece che ci sia stato un movimento circolare che in molti campi si è mosso in entrambe le direzioni. Questa storiografia coinvolge temi fondamentali del rapporto pubblico/privato, dei modelli sociali europei rispetto a quelli americani di mercato, della innovazione individuale rispetto alla solidarietà sociale, alla luce anche dei limiti e delle possibilità del processo di unificazione europea. Il tema ha forti implicazioni di valore a seconda di come sono interpretati l’interdipendenza e il peso relativo di Stati Uniti ed Europa in epoca contemporanea, come indicano i concetti di “americanizzazione”, di “secolo americano”, di “declino europeo”.

In tutta Europa i temi della condizione femminile, come aborto ed emancipazione, hanno continuato a essere molto controversi, e la produzione relativamente fitta di libri europei di storia delle donne americane è avvenuta anche in seguito all’impatto della vera valanga di studi sul tema usciti negli Stati Uniti, un aspetto questo della più ampia influenza del femminismo americano su quello europeo.

Sia negli slogan delle marce di protesta del rinfocolato movimento femminista italiano, sia nella stampa internazionale alla ricerca dei dati sul (mancato) progresso della situazione femminile nella penisola, l’Italia è stata spesso definita “non un paese per donne”. Gli scandali a sfondo sessuale che in anni recenti hanno coinvolto leaders politici del paese hanno ravvivato i temi femminili sulla scena nazionale e la mobilitazione delle donne. Non sorprende quindi che la storia delle donne abbia mantenuto un tono “militante”, accentuato dalla compatta seppur silenziosa resistenza dell’accademia a riconoscerla come area legittima e autonoma di studio. Se cattedre di storia di genere sono apparse solo lentamente in tutta Europa, in Italia sono praticamente inesistenti e le appartenenti alla Società Italiana delle Storiche insegnano un altro argomento o si occupano del tema senza affiliazioni universitarie. Il vincolo con il movimento femminista americano e con le storiche americane di genere ha reso le studiose americaniste italiane delle donne particolarmente note nel settore: sia Raffaella Baritono dell’Università di Bologna che Elisabetta Vezzosi di quella di Trieste, due delle storiche delle donne americane più note in Italia, sono state presidentesse della Società e hanno contribuito ad attenuare la marginalità di cui la storia americanistica italiana ha a lungo sofferto.

Infine c’è una nuova tendenza della storia “militante” degli Stati Uniti in Italia: infatti, a causa della crisi delle tradizionali concezioni radicali, della crescita del neoconservatorismo, e di poco meno di vent’anni di predominio di destra nella vita pubblica in Italia, è emerso dopo una lunga eclisse un gruppo di americanisti neoconservatori. Essi valorizzano le virtù dell’economia capitalistica statunitense, i valori e gli stili di vita americani, il valore emancipatorio della “americanizzazione” contro la resistenza delle élite europee, i meriti della tradizione conservatrice americana, un soggetto quest’ultimo assai importante che è stato colpevolmente trascurato dalla generazioni precedenti degli storici liberali. La maggior parte dei nuovi americanisti conservatori italiani sono studiosi precedentemente di sinistra che hanno cambiato opinione. Come è successo in altre aree del discorso pubblico, studiosi di destra e di sinistra sembrano essersi scambiati il posto con un contrasto quasi speculare: l’accusa frequentemente avanzata in passato dai conservatori contro i progressisti di essere accecati da valori e ideologie, tralasciando fonti primarie e interpretazioni equilibrate, può ora essere capovolta contro i neoconservatori. Come nel caso di Massimo Teodori, già docente all’Università di Perugia e oggi l’intellettuale pubblico americanista più presente nella stampa e in televisione, lo scopo politico dei loro scritti è molto esplicito, l’uso di una pretesa scientificità per legittimare controversie pubbliche è molto visibile, e il loro linguaggio spesso abbandona il distacco analitico in favore della perorazione e dell’invettiva.

Parallelamente a questi coinvolgimenti pubblici e accademici, nuovi sviluppi andavano emergendo nella storiografia americanistica statunitense, dato che al sorgere degli anni Novanta il contesto geopolitico stava nuovamente cambiando e i riflessi della caduta del muro di Berlino facevano sì che gli storici di entrambe le sponde dell’Atlantico cercassero di scrollarsi di dosso la pesante armatura concettuale della Guerra Fredda. Sicuramente l’emergere della nuova “storia atlantica” e della storia globale degli Stati Uniti è stata facilitata dal disintegrarsi delle dicotomie bipolari di Est e Ovest, di capitalismo e comunismo. Intanto il nesso atlantico smetteva di essere visto come l’asse centrale della concezione occidentale del mondo, e pochi anni fa alla Università del Cairo il Presidente Barack Obama ha sottolineato le radici globali della nazione americana. Di conseguenza il Journal of American History si è fatto promotore della “internazionalizzazione della storia americana” e lo storico statunitense Thomas Bender è stato un pioniere nella proposta di “ripensare la storia americana in un contesto globale”.

Gli storici americanisti italiani sono stati in ritardo di circa dieci anni nell’accorgersi e nel praticare il nuovo approccio. Oltre a ragioni di continuità accademica, si deve notare che l’Italia è una potenza regionale di media dimensione, che guarda soprattutto ai teatri europei e mediterranei, e che ha difficoltà ad adottare rapidamente un punto di vista globale che sottolinei il ruolo dell’Asia e del Pacifico. Solo in anni molto recenti gli specialisti italiani di politica estera americana hanno cominciato a porre l’attenzione sui “nuovi temi e metodi della storia internazionale in un mondo globalizzato”, che è il titolo del seminario di Federico Romero all’Istituto Universitario Europeo di Firenze.

La tematica che probabilmente ha rappresentato meglio il vincolo tra il nuovo approccio internazionale della storia americana e l’impegno pubblico degli americanisti italiani è quella degli studi della diaspora migratoria. Recentemente l’Italia è divenuto un paese di immigrazione dall’Europa Orientale, dal Medio Oriente, dall’Africa settentrionale e centrale, e il futuro etnico-culturale della penisola è un tema centrale dell’agenda pubblica. Gli storici delle “diaspore” guardano agli emigranti in una luce transnazionale e pongono attenzione a una mobilità territoriale indipendente dai confini nazionali o, come ha sottolineato Simone Cinotto, pioniere italiano delle nuove tendenze di storia dell’emigrazione, focalizzano i cosiddetti temi “glocali”, una brutta parola che tuttavia dà il senso di come vite locali possono interagire con i grandi trend internazionali.

La lunga storia migratoria degli Stati Uniti ha ovviamente molte “lezioni” da insegnare a un paese di recente immigrazione come l’Italia. Laggiù l’esplosione di libri che trattano degli immigrati asiatici e latino-americani ha obbligato gli storici europeisti dell’emigrazione a rivedere la loro concettualizzazione. Abituati a centrare l’attenzione sugli immigrati dei singoli paesi europei, il fenomeno dei migranti asiatici e latino-americani ha per contrasto portato all’elaborazione del concetto di “immigrati europei”, suscettibili di essere paragonati a quelli di altre parti del mondo, e la storia globale dei migranti promette di rinnovare profondamente un’importante tradizione italiana di studi.

Anthony Badger

Anthony Badger

Anthony Badger, storico degli Stati Uniti a Cambridge in Gran Bretagna, ha detto: “ho [...] consciamente cercato di rendere il mio lavoro indistinguibile da quello degli storici americanisti residenti negli Stati Uniti”. Se cercare di “go native”, omogeneizzandosi con la storiografia americanistica statunitense, oppure se sottolineare la propria diversità, è stata un’ambiguità senza fine degli americanisti europei. Molti di questi hanno passato lunghi periodi di ricerca e di studio in università americane, e le loro ricerche sono state pubblicate in misura maggiore che nel passato da case editrici e riviste americane. Gli studi di americanistica statunitensi ed europei si sono avvicinati ed è emerso qualcosa di simile a una comunità globale degli storici degli Stati Uniti, i cui membri partecipano a comuni influenze storiografiche e standard metodologici. Tuttavia “la scrittura europea di storia americana – ha scritto Michael Heale per conto di un gruppo di ricerca continentale che analizza settant’anni di storia americana in Europa – è fortemente condizionata dalle agende pubbliche nazionali, come lo è lo scrivere di storia americana negli Stati Uniti […]”. La collocazione geografica fa ancora la differenza per quanto riguarda i retroterra educativi, le tradizioni storiografiche, i temi di ricerca, i metodi di analisi, gli stili e la semantica della narrazione, i pubblici cui essa è diretta, la sensibilità esplicita o implicita a legare temi storici e problematiche contemporanee. L’Europa è tutt’altro che un continente politicamente e culturalmente omogeneo: c’è quindi una geografia dello scrivere di storia americana nel “vecchio mondo”, la quale cambia a seconda dei periodi, delle regioni, delle nazioni, dei temi e delle problematiche culturali e pubbliche, che deve ancora essere ricostruita e narrata.

Questo è particolarmente vero per l’Italia: certamente il contesto è cambiato dall’inizio degli anni Ottanta e il passato americano non genera più la ricerca appassionata e intensa di “usable pasts” come era accaduto in precedenza. Tuttavia, la storia americana, anche se praticata da un piccolo numero di specialisti, è ancora uno “specchio lontano”, un’area di studio storico molto sensibile ai temi pubblici della vita nazionale italiana, una continuazione in termini diversi di quella plurisecolare “disputa del Nuovo Mondo”, che è certo una ricerca dell’America, ma ancora di più di se stessi.


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