Le nostre relazioni con l’America settentrionale a prima vista sembrerebbero essere di tipo puramente commerciale, vista la distanza che ci separa, ma oggi le distanze si riducono a causa della moltiplicazione dei mezzi di comunicazione, e gli innumerevoli rapporti che si sono stabiliti tra il vecchio mondo e il nuovo hanno creato tra questi una tale complessità di interessi che tutti i mutamenti politici che si annunziano o hanno inizio in uno dei due mondi devono avere necessariamente grandi conseguenze nell’altro. I trattati di commercio nascondono spesso mire politiche. (Solaro della Margarita 1838)
A change has now come over the affairs of mankind. Walled cities and empires have become unfashionable. The arm of commerce has borne away the gates of the strong city. Intelligence is penetrating the darkest corners of the globe. It makes its pathway over and under the sea, as well as on the earth. Wind, steam, and lightning are its chartered agents. Oceans no longer divide, but link nations together. From Boston to London is now a holiday excursion. Space is comparatively annihilated. Thoughts expressed on one side of the Atlantic are distinctly heard on the other. (Douglass 1852)
It is manifest that in seeking to separate ourselves from the great wars of Europe, we cannot rely on the Atlantic ocean. It has never been a barrier to involvement in wars. Our geography books are as misleading as our history books … our people have been miseducated to think that oceans are an impregnable barrier. Oceans are not a barrier. They are a highway. (Lippmann 1940)
Ho scelto di aprire il mio intervento offrendovi queste tre citazioni perché credo siano indicative della complessità, densità e continuità dei legami che tra Ottocento e Novecento legano l’Europa e le Americhe. In primo luogo questi tre frammenti illustrano, seppure in modo impressionistico, sia la molteplicità delle connessioni transatlantiche, sia le interazioni tra queste connessioni: innovazioni tecnologiche, flussi commerciali, mobilità delle persone, e circolazione delle idee disegnano uno scenario che mette in discussione le cesure cronologiche tradizionali (tra moderno e contemporaneo, tra Ottocento e Novecento). In secondo luogo emerge il carattere bidirezionale dello scambio transatlantico: non si tratta (solo) di espansione del modello europeo o di americanizzazione dell’Europa, né di un rapporto unidirezionale in cui uno dei due poli è la variabile indipendente e l’altro si trova costantemente “at the receiving end”. Infine, è evidente la consapevolezza da parte dei contemporanei di essere parte di un mondo atlantico, o quantomeno di una rete di relazioni economiche, politiche e culturali che univa le due sponde dell’Atlantico e aveva effetti sia sulla loro quotidianità, sia sulla loro visione del mondo. Cosa che in linea di massima non si dava per i protagonisti del periodo tra l’inizio del Cinquecento e la fine del Settecento; come ricorda Allison Games, la atlantic history come la conosciamo ora è un paradigma costruito ex post dagli storici (Games 2006). Queste considerazioni mi portano a (ri)formulare un’ipotesi sul rapporto tra atlantic history e storia contemporanea articolata in tre parti. In primo luogo, non vi è una rottura, ma piuttosto una trasformazione dei legami atlantici tra storia moderna e contemporanea; in secondo luogo questa trasformazione prende le mosse da processi che hanno inizio nei decenni immediatamente successivi alla Restaurazione e dispiegano pienamente i loro effetti tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento; infine, questo nuovo mondo atlantico si distingue da quello dell’antico regime principalmente, ma non solo, per il suo rapporto con il quadro più generale delle connessioni globali che caratterizzano la contemporaneità. È un’ipotesi non nuova, già avanzata nelle sue linee principali da Donna Gabaccia in un saggio del 2004 che argomentava la possibilità e anzi la necessità di riconcettualizzare un “Atlantico lungo” nel quadro globale (Gabaccia 2004); qui viene rivisitata e in alcuni punti messa in discussione (ad esempio con riferimento al tema del presentismo) nelle considerazioni che farò in conclusione. Interrogarsi sul rapporto tra atlantic history e storia contemporanea è rilevante alla luce di due elementi. Da un lato, gli studi sulle relazioni euroamericane tra Ottocento e Novecento anche recentemente hanno offerto contributi importanti (Rogers 1998; De Grazia 2005; Ellwood 2012; Nolan 2012), ma sembrano stretti tra la pervasività di temi come l’americanizzazione e la globalizzazione e il timore che problematizzare le specificità di medio-lungo periodo delle relazioni euro-americane contemporanee possa prestarsi a nostalgie del “primato dell’Occidente” o dell’ideologia dell’atlantismo; e in ogni caso non sono espressione di un paradigma scientificamente e istituzionalmente forte e strutturato come quello della atlantic history. Dall’altro, quest’ultimo ha continuato a strutturarsi, e a imporsi come tendenza dominante negli ultimi dieci anni soprattutto nel mondo anglosassone, attorno a tre cardini. In primo luogo, il mondo atlantico come unità di analisi storica verrebbe meno tra fine Settecento e inizio Ottocento in seguito alle “rivoluzioni atlantiche”, al crollo degli imperi europei, alla conseguente ascesa degli Stati nazionali nelle Americhe, e all’emarginazione dell’Africa legata al declino della schiavitù e della tratta. Ad esempio l’International Center for the History of the Atlantic World fondato da Bernard Bailyn all’Università di Harvard nel 1995 copre l’arco di tempo 1500–1825 e la lista di discussione online H-Atlantic fa riferimento a una periodizzazione analoga. In secondo luogo, questo termine ad quem segnerebbe un mutamento del rapporto tra mondo atlantico e dimensione globale: dopo la prima metà dell’Ottocento, le relazioni tra Europa, Americhe e Africa perdono coerenza e specificità in quanto divengono parte di una rete globale di scambi e connessioni che è il vero tratto distintivo della contemporaneità. Infine riaffiora anche qui una preoccupazione legata al presentismo: parlare di un mondo atlantico contemporaneo implica in qualche misura piegarsi a una pratica storiografica che sarebbe un contributo all’ideologia della guerra fredda più che allo studio scientifico del passato. Nelle pagine seguenti vorrei mettere in discussione questi tre assunti, facendo riferimento a un’ampia letteratura frammentata in vari sotto-settori che possono dialogare proficuamente tra loro.
1. Periodizzazioni atlantiche
Il primo di questi assunti è in realtà messo in discussione con frequenza crescente anche all’interno di questo settore di studi. Tra gli altri, Rothschild (2011) nel saggio Late Atlantic History ha rilevato che alcune delle strutture portanti del mondo atlantico non cessano improvvisamente di esistere con l’inizio del’Ottocento. Come hanno affermato Morgan e Greene (2009, 22), “wherever the Atlantic remains a vital, even privileged arena of exchange among the four continents surrounding it, Atlantic history can still be a useful tool of analysis”. L’esempio più significativo è la permanenza della schiavitù in aree importanti delle Americhe (Stati Uniti, Cuba, Brasile), con tutte le implicazioni del caso in termini economici, culturali, demografici, ecc. Il cosiddetto “Atlantico nero” sicuramente non segue la periodizzazione prevalente, anzi continua a informare le relazioni transatlantiche contemporanee, come ci mostrano Frederick J. Douglass a metà Ottocento oppure, un secolo più tardi, le relazioni e contaminazioni tra il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e la decolonizzazione africana. Un altro esempio importante di continuità è dato secondo alcuni dai limiti e ritardi del processo di nation building in America Latina, che per buona parte dell’Ottocento perpetuerebbe una condizione di dipendenza delle nuove repubbliche dalle vecchie capitali imperiali europee, come dimostrerebbe l’influenza commerciale e finanziaria britannica. La prevalente periodizzazione del mondo atlantico, che di fatto ricalca la partizione tra storia moderna e contemporanea più spesso di quanto si sia disposti ad ammettere, è quindi minata da queste continuità. Ma soprattutto va rivista alla luce di un nuovo sguardo su quel “lungo Ottocento” in cui nuove connessioni economiche, politiche, culturali, demografiche, geopolitiche prendono forma, in parte come riconfigurazione delle precedenti, e danno vita a un “nuovo Atlantico”, cioè a una rete di rapporti transatlantici che pur essendo parte di uno scenario ormai globale si distingue e acquisisce una natura peculiare in quanto particolarmente densa, multidimensionale e multidirezionale.
2. Il “nuovo Atlantico” nel quadro globale
Partiamo dagli anni Venti dell’Ottocento, che ritengo essere un decennio cruciale, uno snodo tra vecchio e nuovo mondo atlantico. Gli studi sulla storia della globalizzazione economica (O’Rourke e Williamson 2002) collocano le sue origini negli anni Venti e Trenta, quando la “rivoluzione dei trasporti” (G.R. Taylor 1951) provocata soprattutto dalla creazione di linee transatlantiche regolari tra i porti del Nord Est degli Stati Uniti (Boston, New York) e quelli britannici (Liverpool) abbatte i costi del trasporto di merci e persone, regolarizza e abbrevia tempi di percorrenza, con conseguenze dirompenti per l’integrazione di un nuovo mondo atlantico all’interno del quadro globale. Già dalla fine del decennio precedente, in realtà, coesistevano fattori di integrazione e di disintegrazione del mondo atlantico; si intrecciavano da un lato l’apogeo della Restaurazione e dall’altro i segnali del superamento della rigida divisione tra l’Europa e il Nuovo Mondo che era implicita nell’ordine del 1815. Ad esempio nel 1818 da un lato le potenze europee al Congresso di Aix-la-Chapelle rinnovavano la Quadruplice Alleanza e l’agenda legittimista del Congresso di Vienna – tra l’altro contribuendo a una reazione da parte americana che porterà alcuni anni dopo alla Dottrina Monroe – dall’altro la prima nave della Black Ball Lines partiva da New York per Liverpool, inaugurando l’era dei liners nel Nord Atlantico. Ma in che misura è possibile perimetrare un mondo atlantico a partire dalla prima metà dell’Ottocento? L’obiezione proveniente dal campo della world history è duplice. In primo luogo, questa rivoluzione dei trasporti si globalizzerà con la diffusione di reti navali e ferroviarie al di fuori del bacino atlantico nel corso dell’Ottocento. In secondo luogo, è stato rilevato, i volumi di traffico commerciale e dei flussi migratori in altre regioni del mondo (l’oceano Indiano e Pacifico, l’Estremo Oriente) erano significativi già in età moderna, gli scambi euro-asiatici erano importanti almeno quanto quelli euroamericani, e queste tendenze non vengono meno a partire dall’Ottocento (Coclanis 2002; Frank 1998; Pomeranz 2000; Wong 1997).

La Britannia (1840), il primo transatlantico della Cunard Steamship Company.

Mappa del primo tentativo di cavo telegrafico transatlantico (1858).
Tuttavia, per buona parte dell’Ottocento le comunicazioni navali e telegrafiche, grazie all’introduzione della navigazione a vapore a partire dagli anni Quaranta e alla posa del primo cavo telegrafico transatlantico nel 1867, perimetrano uno spazio nordatlantico (con l’America latina e l’Europa mediterranea integrate in chiave spesso subordinata e l’Africa emarginata) che sarà a lungo il nocciolo duro e il motore della futura globalizzazione. La navigazione tra Europa e Americhe rimane più veloce ed economica che in altre aree del mondo (anche dopo l’apertura del canale di Suez), e la rete telegrafica più fitta, almeno fino alla fine del lungo Ottocento e alle soglie di quella che Hobsbawm ha definito l’“età della catastrofe”. Ma soprattutto l’avvio di questa globalizzazione economica si sovrappone a, e alimenta, connessioni di altra natura che denotano il campo delle relazioni tra Europa e Americhe come uno spazio atlantico collegato al quadro globale, ma connotato da forti specificità non solo economiche, ma anche sociali, culturali e politiche. Elementi qualitativi, più che quantitativi, circoscrivono lo spazio atlantico all’interno della globalizzazione otto-novecentesca e gli attribuiscono una coerenza che ne fa un’unità d’analisi storica in cui si intrecciano forze transnazionali e dinamiche internazionali. Per precisarne meglio contorni e contenuti separiamo schematicamente due livelli, quello relazionale e quello comparativo.
2.1 La dimensione relazionale
Per quanto riguarda le relazioni tra Europa e Americhe, la citata “rivoluzione dei trasporti” e la conseguente espansione del commercio aprono la strada a flussi tra loro interconnessi. Studi di storia economica e delle migrazioni hanno mostrano da tempo le sovrapposizioni tra reti commerciali e rotte migratorie a partire dall’Atlantico settentrionale a metà Ottocento e poi nel Mediterraneo nella seconda metà del secolo. I “trattati di amicizia, commercio e navigazione” che regolano la ripresa del commercio tra gli Stati Uniti, le nuove repubbliche latinoamericane e gli Stati europei a partire dagli anni Venti sono anche i primi tentativi di regolare la circolazione transatlantica delle persone (Ph. Taylor 1971; Gabaccia 2012). Nel caso italiano si ha evidenza di questo nel trattato siglato tra gli Stati Uniti e il Regno di Sardegna nel 1838. Questi trattati comportarono la crescita di reti diplomatiche e soprattutto consolari, che fu esponenziale in quei decenni, a partire dal caso britannico (Anderson 1993). Era questo il primo passo, dopo la cesura delle rivoluzioni atlantiche e delle guerre napoleoniche, verso un altro potente fattore di integrazione transatlantica: il riconoscimento tra soggetti – tra monarchie europee, repubbliche americane e, in misura assai minore, soggetti statuali in altre aree del mondo – dotati di una nozione diversa di sovranità, e verso la costruzione di una comunità internazionale che non è più solo europea ma euroamericana (Benton 2010; Carmagnani 2003; Scully 2001). È importante tuttavia evitare forme di determinismo economico se si vuole cogliere la complessità e specificità di questo nuovo spazio atlantico. L’integrazione commerciale – poi rafforzata dalla circolazione di capitali, da investimenti in infrastrutture (è il caso degli investimenti britannici nelle ferrovie in America Latina) e dalla diffusione di servizi finanziari – è parte di un’accelerazione della circolazione di persone e di merci che ha conseguenze molteplici, ad esempio nella diffusione, e spesso nella ibridazione, di idee economiche e politiche. Si pensi alla ripresa dell’influenza delle teorie liberoscambiste. Il vangelo del “libero commercio”, che già era stato un tema delle indipendenze americane, conosce una nuova spinta con gli anni Trenta, come dimostra il successo della critica di Richard Cobden alle politiche mercantiliste nell’Europa continentale, inclusi gli Stati italiani, e nelle Americhe. Le conseguenze politiche di questo dibattito sono rilevanti: l’enfasi sul commercio come tessuto connettivo tra i popoli è una delle forze di una più ampia critica liberale al “balance of power” scaturito dal Congresso di Vienna. Questa critica liberale all’ordine delle autocrazie europee era a sua volta parte di un più ampio processo di nation building e di ricerca di autodeterminazione che è un altro tratto del lungo Ottocento euro-americano, in cui l’opposizione al colonialismo europeo nelle Americhe si salda all’avvento, o alla riconfigurazione, di stati liberali tra anni Cinquanta e Settanta in Canada, Argentina, Messico, Stati Uniti, Germania e Italia (Anderson 2003; Gabaccia 2004; Howe e Morgan 2006). Infine, per chiudere questo quadro molto sintetico della dimensione relazionale come forza di integrazione tra Vecchio e Nuovo Mondo, l’approccio transnazionale alla storia politica e delle idee ci sta mostrando che questi processi di costruzione dello Stato nazionale sono stati possibili anche grazie a reti transnazionali animate da intellettuali, esuli, comunità di migranti che attraverso le loro associazioni e la carta stampata costituirono un’“internazionale” repubblicana o liberale che è un’altra connessione caratteristica del rapporto transatlantico. Anche questa non era connessione unidirezionale, non si trattava di un ennesimo capitolo dell’europeizzazione del mondo. Ad esempio Maurizio Isabella ha mostrato come l’esperienza delle indipendenze latino-americane sia stata importante per la creazione di un’“internazionale liberale” di natura fortemente transnazionale che dà vita ai moti in Piemonte, Napoli e nella penisola iberica nei primi anni Venti (Isabella 2009). Un decennio che, come si diceva in apertura, è rilevante a molti livelli per la riconfigurazione economica, politica e culturale dei legami tra le due sponde dell’Atlantico (Blaufarb 2007; Brown e Paquette 2011) e si pone come snodo, termine a quo di un lungo Ottocento che ridisegna lo spazio atlantico affondando le origini nelle rivoluzioni di fine Settecento e dispiegando i suoi effetti almeno fino alla Prima guerra mondiale. Naturalmente molte di queste connessioni, soprattutto di tipo transnazionale, se considerate singolarmente non sono esclusivamente atlantiche. È sufficiente pensare all’ovvia importanza dell’India nel quadro dell’economia dell’Impero britannico, o dell’Africa e dell’Asia nel quadro di quello portoghese; o all’afflusso di servi a contratto dalla Cina e dall’India ai Caraibi dopo lo Slavery Abolition Act del 1833, che illustra con efficacia la portata globale delle connessioni. O ancora si consideri la circolazione globale, e non solo atlantica, del liberalismo ottocentesco messa in evidenza da studi recenti (Baily 2011). E tuttavia pare difficile negare che solo nello spazio atlantico si ha in primo luogo la compresenza di tutti queste connessioni, che si rafforzano reciprocamente tanto da delimitare un perimetro variabile nel tempo, ma sufficientemente netto, al cui interno eventi e processi hanno spesso ripercussioni in altre parti del sistema. E, in secondo luogo, si ha una spiccata bidirezionalità e reciprocità, che quindi differenzia questa concettualizzazione da modelli basati sulla dicotomia centro/periferia, o da determinismi economici o culturali funzionali a vecchi disegni di europeizzazione/civilizzazione del mondo.
2.2 La dimensione comparativa
Il mondo atlantico otto-novecentesco è anche caratterizzato da analogie significative nei percorsi di modernizzazione socio-economica e politico-istituzionale; gli studi comparativi su questo tema aggiungono un’altra dimensione a quella relazionale, e arricchiscono quanto accennato precedentemente circa le analogie nei processi di nation building in Europa e nelle Americhe. Rifacendoci a un modello delineato da Hans-Jürgen Puhle, possiamo affermare innanzitutto che lo spazio atlantico delineato da questi convergenti percorsi di modernizzazione coincide con l’Europa e le Americhe, ha limiti non strettamente definiti ed è parte integrante del “sistema-mondo”, ma è caratterizzato dal fatto che al suo interno si sono avviati, a partire dall’Europa, processi di modernizzazione con specificità e differenze nazionali e regionali ma con forti analogie (Puhle 2002). In primo luogo esisterebbe un retroterra culturale comune: la società occidentale costruita sulla tradizione giudeo-cristiana, che si differenzia da altre società in quanto pluralista, pluricentrica, competitiva. È facile scorgere in questa premessa una dimensione “orientalista” volta a costruire la propria identità sulla base di una contrapposizione con l’Altro che è stata al centro di un’intensa critica a partire dagli studi di Edward Said. In secondo luogo, questi percorsi di modernizzazione avrebbero tre ingredienti comuni, sarebbero cioè la combinazione, variabile a seconda dei casi, di burocratizzazione, industrializzazione e democratizzazione. Le specificità nazionali o regionali sono date dal diverso dosaggio di questi ingredienti; ad esempio negli Stati Uniti vi è forte democratizzazione e bassa burocratizzazione, in America latina il contrario, mentre in Europa si danno varie combinazioni nei diversi casi nazionali. In terzo luogo, le differenze sarebbero rilevanti soprattutto all’inizio del processo di modernizzazione, segnato dalla formazione di un’economia capitalistica industriale e dello Stato-nazione, mentre nel lungo Ottocento e soprattutto nel Novecento prevarrebbe la tendenza alla convergenza, dovuta anche al peso dell’americanizzazione soprattutto nella sfera economica (il Nord America è il primo caso in cui si avvia un percorso autonomo, che rompe con la dipendenza dal modello europeo). Infine, se la modernizzazione così definita interesserà anche aree extra-atlantiche, nel mondo atlantico questo processo è caratterizzato da un’interazione bidirezionale: le connessioni transatlantiche non sono a senso unico, esiste un “transatlantic learning” per quanto non tra eguali; si può parlare quindi di una molteplicità di modernizzazioni “atlantiche” o “occidentali”. E il mondo atlantico, in questo quadro, non è una singola entità storica ma, nella definizione di Puhle, una “community of experience”, uno spazio segnato da molteplici relazioni, interazioni, interdipendenze, e scambi. Si tratta naturalmente di una razionalizzazione ex post ad opera dello storico. I contemporanei non avvertivano questa convergenza, ma, al contrario, coglievano spesso le diversità, se non addirittura l’alterità, tra Vecchio e Nuovo Mondo anche in momenti in cui molte delle forze di integrazione transatlantica citate in precedenza erano in azione. Ad esempio, il lavoro di Timothy Roberts sull’impatto e le letture del Quarantotto europeo negli Stati Uniti mostra come quell’ondata rivoluzionaria suscitò al di là dell’Atlantico una notevole attenzione, che rifletteva anche la speranza della diffusione delle istituzioni repubblicane e dei principi liberali in Europa continentale. Quando però fu chiaro che gli esiti – reazione autocratica oppure “degenerazione” rivoluzionaria – furono assai diversi da quelli auspicati, l’opinione pubblica e le classi dirigenti americane videro confermata la loro convinzione dell’eccezionalità degli Stati Uniti e della profondità del solco che divideva l’Atlantico: in quel frangente America ed Europa tornarono a definirsi in termini oppositivi. E tuttavia anche questo era un legame forte, un fattore di disintegrazione che intrecciandosi ai molteplici fattori di integrazione visti finora contribuiva a caratterizzare il rapporto transatlantico, come mostrano gli studi sulle categorie di identità e alterità applicate recentemente agli studi storici e alle relazioni internazionali e transnazionali (Bonazzi 2004; Campbell 1992; Murphy 2005; Ryan 2000).
3. Il presentismo. Considerazioni conclusive.
Infine, nel delineare uno spazio atlantico otto-novecentesco come unità di analisi storica dotata di senso, uno dei nodi da sciogliere è il tema del presentismo. È lecito domandarsi se sia possibile finalmente problematizzare le relazioni transatlantiche nel mondo contemporaneo senza necessariamente fare un’apologia della “civiltà occidentale” che, per dirla con David Armitage, “owed more to NATO than it did to Plato”. Per vari studiosi infatti un’atlantic history in chiave contemporanea rischia seriamente di essere in qualche modo strumentale all’ideologia della Guerra fredda e dell’atlantismo che le è sopravvissuto, così come la storia atlantica degli anni Cinquanta era stata vista come “a historically illuminated manifesto for the creation of a strong North Atlantic treaty … and a continued American presence in Europe” (Allitt 1997, 266). Questo timore è comprensibile e giustificato alla luce di una lunga traduzione novecentesca che – dalla comparsa dei corsi di “Western civilization” nelle università americane degli anni Venti all’atlantismo storiografico degli anni Cinquanta – ha in effetti costruito l’Atlantico bianco e cristiano, depurato di elementi conflittuali e presenze altre al suo interno, come la culla della civiltà tout court. Ad esempio, questo timore era all’origine della freddezza con cui furono accolte le tesi di Robert Palmer e Jaques Godechot sulle “rivoluzioni atlantiche” che a metà anni Cinquanta costruivano un paradigma storiografico fortemente inserito nel solco della costruzione di una “civiltà”, e di un primato, occidentale. (Armitage 2002; Bailyn 1996; O’Reilly 2004). Tuttavia, e queste sono le mie conclusioni, ad alcuni decenni di distanza da quella stagione, in un quadro storiografico e politico-culturale radicalmente mutato, è possibile fare due considerazioni. In primo luogo, l’emergere di un paradigma storiografico atlantico negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, che era parte di un processo di ricollocazione del paese nel contesto internazionale in chiave anti-isolazionista e di ridefinizione della stessa identità nazionale in senso anti-eccezionalista precedente la Guerra fredda, ha logiche interne e in ogni caso non è riducibile semplicemente agli imperativi dello scontro ideologico di quegli anni. In secondo luogo, ora che il clima della guerra fredda si è dissolto e i richiami a “provincializzare l’Europa” stanno avendo da tempo i loro salutari effetti negli studi storici, invero altrove più che in Italia, è lecito e forse doveroso riconsiderare le connessioni atlantiche nel mondo contemporaneo come “a slice of world history” (Games 2006), o come una regione che, come afferma Gabaccia, nell’era contemporanea si trasforma al suo interno, si riposiziona all’interno delle relazioni globali, e quindi va situata in questa prospettiva più ampia (Gabaccia 2004), ma non per questo perde la sua specificità e coerenza. Sappiamo che determinate unità di analisi storiche e geografiche acquistano significato non in astratto, ma in base alle domande che lo storico si pone, e in base al suo punto di osservazione. Un “mondo atlantico” depurato dalle incrostazioni ideologiche del passato può essere un’unità di analisi significativa soprattutto se ci si libera definitivamente dei fantasmi della Guerra fredda e si superano alcuni steccati (tra dimensione transnazionale e internazionale, tra storia politica e sociale) e si assume uno sguardo sintetico sulle relazioni tra Europa e Americhe nel lungo Ottocento e nel secolo scorso.