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“Storia e buoi dei paesi tuoi”: Un apologo per lo svago di giovani e vecchi americanisti

Questo testo è tratto dall’intervento come discussant alla relazione di Maurizio Vaudagna, tenuto nella conferenza America: Still a European Power svoltasi a Bologna il 7–8 dicembre 2012, organizzata dal Professor David Ellwood grazie alla collaborazione tra l’Università di Bologna e la Johns Hopkins University, Bologna Center.

 

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La situazione politico-storica italiana, scrive Vaudagna, ha fatto sì che dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati Uniti siano stati visti alla luce di intense controversie pubbliche e ciò ha influenzato l’americanistica storica del nostro paese che è stata fortemente caratterizzata da un “uso pubblico della storia”. Vaudagna intreccia questo filo rosso con il tema della compiuta professionalizzazione degli americanisti di terza generazione, la sua generazione, che hanno unito una pratica “pubblica” della storia – anche se non più “militante” dopo gli anni giovanili – con la volontà di acquisire un metodo che consentisse loro di essere ascoltati e letti alla pari a livello internazionale. In tempi più recenti, conclude, si è venuta a creare in Europa una sorta di comunità internazionale degli storici americanisti, anche se i contesti nazionali sono stati e rimangono estremamente rilevanti. Se questo è l’intreccio sul quale Vaudagna costruisce il suo saggio, si può prendere spunto da esso per proseguire nell’argomentazione.

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La tentazione di inserire la storiografia sugli Stati Uniti nel dopoguerra in Italia e in Europa nella tanto dibattuta questione dell’americanizzazione potrebbe essere forte, ma a mio avviso errata, perché ritengo che costituisca, invece, un capitolo della storia della cultura europea che solo in alcuni casi e in parte si sovrappone a quella. È vero, invece, che la struttura di entrambe è simile.

Gli studi sull’americanizzazione, fra cui gli ultimissimi citati dallo stesso Vaudagna, sono concordi nello scorgervi non un processo di acculturazione passiva, bensì di ibridazione creativa degli input americani con le culture dei paesi europei. Non quindi un’omogeneizzazione, volontaria o meno, alla potenza dominante, che è l’ipotesi che ci viene dall’eredità della Guerra fredda quando Stati Uniti ed Europa (occidentale) erano visti come realtà separate in un contesto in cui i primi intervenivano a salvare da se stessa oppure a sottomettere la seconda. Oggi è chiaro che le due sponde dell’Atlantico sono sempre esistite in un contesto storico comune, per cui ci si rende conto che i processi di americanizzazione non hanno agito su un “altro” europeo, bensì all’interno di una realtà che, sebbene profondamente diversificata, è una – è la storia della Grande Europa euroamericana. Non si è neppure trattato di qualcosa di totalmente nuovo rispetto al passato, perché le potenze di volta in volta dominanti nel sistema grande-europeo, pur non distruggendone mai il pluralismo politico e culturale, hanno storicamente esercitato una stabile influenza sugli altri paesi, che si è manifestata – sempre – attraverso una creativa ibridazione culturale, a sua volta essenziale per formare quel tessuto connettivo che ci consente di parlare di Europa e di Grande Europa.

Il caso della storia degli Stati Uniti nel Vecchio mondo è un capitolo della storia dei paesi europei in un momento storico specifico in cui gli Stati Uniti, fino alla Seconda guerra mondiale sentiti lontani e diversi, impongono con l’americanizzazione la necessità di fare i conti con loro. Di tale capitolo e dei modi in cui gli europei hanno incorporato la storia degli Stati Uniti nella propria percezione storica, tuttavia, si sa poco e quel poco che si sa non è condiviso al di là dei singoli confini nazionali. Siamo di fronte a un capitolo ancora poco noto che varrebbe la pena esplorare con una serie di saggi dai singoli paesi europei volti ad aprire un dibattito su quanto è successo e sta succedendo.

Posto tutto ciò come premessa, è all’Italia che occorre adesso rivolgersi.

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Vaudagna giudica positivamente l’uso pubblico della storia da parte degli americanisti italiani e lo sforzo compiuto – nonché i risultati ottenuti – dalla sua generazione per combinare tale atteggiamento con una vera e compiuta professionalizzazione. Senza dubbio ha ragione; ma ciò che scrive invita a gettare uno sguardo all’altro lato della medaglia, quello che egli non esplora.

È infatti vero che la terza generazione di americanisti ha raggiunto almeno in parte il suo scopo; ma nello stesso momento in cui essa, comparsa sulla scena negli anni Settanta e Ottanta, otteneva un riconoscimento al di là dei confini e manteneva un forte impegno civile, la sua influenza in Italia non cresceva e lo spazio degli americanisti nell’Università restava esiguo. Un risultato davvero paradossale, reso ancor più paradossale dal fatto che negli anni Cinquanta e Sessanta la prima generazione di americanisti, composta da specialisti di altre discipline che solo part time lavoravano sugli Stati Uniti, ebbe un’influenza pubblica maggiore, pur se anche allora limitata.

Protagonisti di quella che molto tempo fa chiamai prima generazione furono combattivi intellettuali, già noti sulla scena pubblica, che esplorarono selettivamente gli argomenti della storia statunitense necessari a condurre le loro battaglie. La loro statura pubblica e l’alto livello intellettuale posero quanto scrivevano sugli Stati Uniti al centro di importanti dibattiti politici, senza, però, che l’atteggiamento tutto “politicistico” nei confronti della storia americana mutasse davvero. Quanto essi fecero, tuttavia, aprì alcuni spazi accademici e di essi approfittò la seconda generazione, quella a cui appartengo, con una più precisa formazione americanistica, molto interessata in alcuni suoi membri al dibattito politico, in altri legata soprattutto alla vita accademica. Una generazione di transizione, ritengo.

L’origine, diciamo così, mediata della ricerca storica sugli Stati Uniti e le difficoltà incontrate per farla crescere rispecchiano il dato che tutte le generazioni di americanisti hanno avuto a che fare con l’incapacità, o quasi, della cultura e della storiografia italiane di misurarsi con l’America. Non mi riferisco all’antiamericanismo, vero o supposto; ma a qualcosa di più profondo, una sorta di inconscia assimilazione culturale degli Stati Uniti all’Italia che precede sia l’anti che il filoamericanismo. L’America, non la “Merica” degli emigranti, ma il mito o i miti sugli Stati Uniti che danno vita a quell’animale proteiforme che è l’”America”, è nata anche dal fatto che gli Stati Uniti sono stati tradizionalmente visti come una dépendance storica e culturale dell’Europa – oltre a un paese che per la sua giovinezza era senza storia, vale a dire privo di un proprio autonomo percorso degno di essere studiato. Ecco allora che gli storici marxisti non ritenevano di dover studiare la storia americana perché il capitalismo e l’imperialismo erano creature europee che negli Stati Uniti si erano soltanto ingigantite in direzione di un più completo dominio borghese e gli Stati Uniti erano un nemico politico da combattere con le armi della politica. Per i cattolici, invece, gli Stati Uniti, nonostante l’alleanza in chiave anticomunista, erano ancora un paese protestante di cui diffidare per l’eccesso di individualismo non solo economico e sociale, ma soprattutto spirituale. Il paese che, con l’americanismo condannato da Leone XIII a fine Ottocento, aveva rischiato di avvelenare gli stessi cattolici d’oltreoceano. Da qui il disinteresse di gran parte degli storici italiani per i quali l’unica storia “vera” era e restava quella europea.

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J. William Fulbright, senatore dell'Arkansas e creatore dell'omonimo programma.

J. William Fulbright, senatore dell’Arkansas dal 1945 al 1975 e creatore dell’omonimo programma.

Il paradosso in precedenza indicato non è, però, l’unico nel rapporto fra cultura italiana e statunitense del dopoguerra. Se, infatti, consultiamo il catalogo dei borsisti Fulbright degli anni Cinquanta e Sessanta troviamo i nomi di tutti coloro che rilanciarono o rifondarono la ricerca scientifica del nostro paese nel dopoguerra sia nel campo delle scienze “dure” che di quelle sociali e umanistiche. Inutile ricordare che formidabile esempio di diplomazia culturale sia stato il Programma Fulbright, posto in essere a Washington con sofisticata comprensione del presente, per consentire ai paesi alleati di modernizzarsi sulle orme degli Stati Uniti e di sentirsi a loro vicini in quanto in grado di “parlare” lo stesso linguaggio scientifico della potenza dominante.

Non entro nel campo delle scienze dure e mi limito a notare che nel dopoguerra le scienze sociali italiane rinacquero su basi americane. Scienze con una forte tradizione alle spalle nel nostro paese come la sociologia, la psicologia, l’economia e scienze nuove quali la scienza politica, il management e le relazioni industriali, tutte sposarono metodi di ricerca elaborati oltreatlantico, con una ricaduta concreta sui modi della ricostruzione postbellica e sul boom economico degli anni Sessanta. Oggi queste discipline godono di una grande visibilità e forza accademica, in contrasto netto con quanto avvenuto in campo storico, sebbene anche gli storici americanisti siano presenti fra i Fulbrighter.

Altrettanto e forse più significativo per quanto sto dicendo è il destino degli American Studies. Gli studi di area, lo sappiamo, non hanno mai avuto fortuna in Italia, sia perché i confini disciplinari sono molto forti, sia, probabilmente, per la scarsa proiezione internazionale del nostro paese che non ha sentito il bisogno di uno studio integrato delle diverse aree del mondo. Nel 1973 la “Associazione italiana di studi nordamericani” (AISNA) venne fondata per cercare di ovviare a tale situazione e, al fine di sottolineare la propria natura di associazione d’area, si diede una struttura “federale” su tre classi disciplinari: letteratura, storia, scienze sociali. Quest’ultima classe, in pratica, non riuscì a costituirsi perché chi doveva afferirvi – tranne alcuni specialisti di diritto costituzionale che per qualche tempo entrarono nell’associazione – non si riconoscevano in essa né a livello scientifico, né professionale. L’associazione ha quindi vissuto e continua a vivere su due sole gambe, quella dei letterati e quella degli storici; ma si tratta di due gambe di lunghezza molto diseguale, perché oltre lo 80% dei suoi membri è sempre stato formato da studiosi di letteratura americana. Il che è indicativo del ben più ampio spazio accademico conquistato dai colleghi letterati rispetto agli storici.

Eccoci, allora, davanti a un altro problema di fondo, quello delle ragioni per cui la letteratura ha avuto un destino diverso dalla storia degli Stati Uniti. Non che i letterati americanisti non abbiano incontrato anch’essi gravi difficoltà, osteggiati dagli anglisti che vedevano nella letteratura americana un’espressione minore della letteratura di lingua inglese e intendevano mantenere la purezza – e il monopolio – dell’insegnamento dell’inglese nelle scuole ventilando l’invasione dell’inglese-americano. Diverse, però, sono state le basi di partenza di letteratura e storia americane. Se prima della Seconda guerra mondiale quest’ultima era un mistero sia per l’accademia che per la storiografia italiana, negli anni Trenta la letteratura americana cominciò a penetrare in Italia come letteratura di opposizione in quanto ribelle, frutto di un paese “giovane e innocente” da contrapporre a un regime tanto autoritario quanto retorico e pomposo. La vivacità della cultura artistica e letteraria italiana degli anni Trenta, sia nelle pieghe del fascismo che contro di esso, è qualcosa di assodato e ciò consentì di aprire uno spiraglio anche verso gli Stati Uniti. Spiraglio che divenne un torrente impetuoso nel dopoguerra per la fame di scrittori americani mostrata dal pubblico italiano, ben al di là della propaganda culturale di organismi ufficiali come l’USIS e nonostante l’opposizione politica agli Stati Uniti di molti di coloro che prima della guerra avevano scoperto l’America. Gli americanisti letterati hanno avuto il merito di inserirsi nel complicato processo postbellico di rinnovamento del nostro paese, in parte approfittando della base accademica fornita dalla letteratura inglese, in parte del favore di cui i classici americani dell’Ottocento e del Novecento godevano presso il pubblico e i circoli letterari.

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L’americanistica storica italiana, al di là dell’impegno e dei risultati che Vaudagna sottolinea, sembra quindi essere andata controcorrente rispetto a tante altre discipline che hanno avuto a che fare con gli Stati Uniti. La colpa potrebbe essere degli stessi storici, nonostante il loro impegno e risultati; ma non ho intenzione di mettermi sulla via dell’autoflagellazione o dall’autoanalisi di gruppo – e quella individuale la faccio a porte chiuse – perché ritengo di non avere gli strumenti per perseguirla. È invece possibile proseguire su quella di un’analisi dei dati strutturali disponibili.

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Benedetto Croce

Benedetto Croce

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Antonio Gramsci

Antonio Gramsci

Il destino della storia americana non è un caso isolato, perché la storiografia italiana di tutte le aree extraeuropee, Asia, Africa, America Latina, è stata e continua a essere debole. Ci troviamo davanti a una pecca delle nostre scienze storiche le cui cause sono molteplici; ma che in prima istanza va fatta risalire alla già ricordata funzione esemplare della storia europea e alla centralità della ricerca storica nella cultura europea. Che si tratti dello storicismo di matrice hegeliana o marxista, della whig interpretation of history di Butterfield, delle interpretazioni nazionali e nazionaliste di Guizot e Michelet o di altre tesi, dall’Ottocento e fin oltre la metà del Novecento la storia è stata lo strumento scientifico di elezione per interpretare e costruire il presente. In Italia vengono subito alla mente i nomi di Benedetto Croce e Antonio Gramsci, per i quali l’oggi, cioè la politica, non poteva fondarsi se non sulla storia. La loro storia, però, come per gli altri autori citati, era storia europea, la sola “dotata di senso” e quindi universale, il che limitava enormemente lo spazio lasciato alle storie extraeuropee. Lo stato di minorità riservato a queste ultime non fu, però, uguale ovunque e dipese anche dal grado di maturità culturale di ogni singolo paese e dal maggiore o minor ruolo internazionale ricoperto. In Francia, Inghilterra, Germania, infatti, le storie extraeuropee sono state campi vivaci di ricerca sia pure all’interno dei parametri indicati, anche se per quanto riguarda la storia americana – e la cosa ha un preciso significato – soltanto l’Inghilterra ha sviluppato ancor prima della Seconda guerra mondiale una propria tradizione storiografica.

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La situazione, come si vede, è estremamente complicata e non credo che le confuse indicazioni fornite in poche righe la abbiano chiarita. Spero soltanto che siano servite a porre in luce come il destino degli americanisti storici italiani vada inquadrato in un orizzonte più ampio, anche se le peculiarità nazionali ne hanno concretamente segnato le vicende.

Vi è, tuttavia, un altro punto che occorre affrontare e che riguarda la centralità che, in parallelo alla natura esemplare della storia europea, la ricerca storica ha avuto per interpretare il presente. Gli storici della Grande Europa hanno costantemente intrecciato eurocentrismo e nazione in quanto hanno collocato la propria storia nazionale nel contesto della storia europea intesa come storia universale e in molti casi ne hanno fatto il momento culminante di quest’ultima, quello più pregno di senso per il presente. La loro è stata al tempo stesso storia della nazione e, per i fini e gli ambiti di ricerca perseguiti, storia politica. La storiografia statunitense è stata in ciò maestra, in quanto quasi compattamente fino agli anni Sessanta – con l’eccezione parziale della scuola storica “imperiale” della Rivoluzione americana di inizio Novecento – e in parte ancor oggi, si è programmaticamente costruita sulla contrapposizione fra storia americana e una ipotetica e mitica “Europa” nemica di tutto ciò a cui l’America deve ispirarsi. Di conseguenza le ricerche sulla storia europea hanno vissuto all’interno di circoli ristretti o sono servite a rafforzare stereotipi nazionalisti.

Il caso americano ritengo sia di estremo interesse anche per il modo in cui ha cominciato a cambiare a partire dagli anni Sessanta. In quel decennio e nel successivo, come è noto, il consenso politico nazionale entrò in crisi e ciò, assieme ai mutamenti in corso nella società americana, contribuì a depotenziare il ruolo della storia politica tradizionale secondo la quale gli Stati Uniti avevano una ben definita e compatta natura. “Politici” divennero i temi che potevano essere meglio trattati dalla storia sociale, da quella degli inarticulate, dei neri, dalla storia di genere oppure radicalizzando la labor history. È stato, quindi, nel momento in cui l’interpretazione dell’identità nazionale americana è diventata insicura e il paese si è apertamente spaccato che gli storici americani hanno cominciato a esplorare alternative al “discorso” storico mainstream. La storia nazionale si è così sfarinata in una serie di contesti e prospettive diverse e si è frantumata l’idea di carattere nazionale, che si era voluto legato a qualche specifica caratteristica – dalla frontiera al plenty alla middle class al liberalismo –  che la rendeva una e compatta, anche se per gli storici progressisti alla Beard tale compattezza era da ricostituire attraverso la lotta politica.

La progressiva disgregazione delle interpretazioni unitarie del contesto storico nazionale e la conseguente perdita di centralità della storia politica si sono verificate nella storiografia di tutti i paesi della Grande Europa e anche nel nostro. Negli anni Ottanta si diede, di conseguenza, una situazione in cui, mentre gli americanisti italiani cercavano di ottenere un posto al sole, la ricerca storica si allontanava dalle storie nazionali. Non veniva per questo meno l’attenzione nei confronti degli Stati Uniti; ma la ricerca sulla storia politica nazionale americana non era più sufficiente a fornire risposte e ciò restrinse i già esigui spazi – accademici e di attenzione – che, per le ragioni viste in precedenza, la storia americana era riuscita ad avere.

Se quanto detto finora ha una qualche verosimiglianza ci troviamo davanti a un doppio impedimento sullo sfondo di una grande inversione culturale. Quest’ultima consiste nella drammatica perdita di ruolo delle scienze storiche come strumenti di comprensione e di azione nella cultura contemporanea – andata di pari passo con il declino delle storie politiche nazionali – cosicché, nel nostro caso, gli Stati Uniti vengono oggi prioritariamente interpretati da altre scienze sociali. Il doppio impedimento che ha bloccato l’affermazione autonoma della storia degli Stati Uniti nonostante quanto gli americanisti hanno fatto e fanno, nasce, invece, da un lato dalla mai scomparsa difficoltà della cultura italiana a misurarsi con gli Stati Uniti e dall’altro dallo spezzarsi degli involucri nazionali come oggetto privilegiato della ricerca storica.

Per quanto riguarda il primo legame è vero che la nostra cultura sta dando segni di uscire dall’eurocentrismo e aprirsi al difficile confronto con l’altro da sé rappresentato dalle aree e culture esterne a quello che in termini tutt’altro che chiari viene detto Occidente; tuttavia, essa continua a non capire se gli Stati Uniti vadano trattati anch’essi come un altro da sé o come parte di quel sé estremamente differenziato, però da un punto di vista sistemico, che io chiamo Grande Europa.

Il secondo legame ha un significato più complesso. Lo spezzarsi degli involucri nazionali come riferimento privilegiato della ricerca ha penalizzato in modo particolare l’americanistica, soprattutto da un punto di vista accademico; ma non credo che debba avere un significato soltanto negativo. La storia di genere ha mostrato, ad esempio, un significativo interesse per gli Stati Uniti e lo stesso può dirsi per la storia atlantica, come sottolinea anche Vaudagna. La storia delle relazioni internazionali necessariamente guarda agli Stati Uniti e nel momento in cui muove, come sta facendo, al di là della storia diplomatica o dei soli rapporti politici fra stati, si apre a una più approfondita attenzione alla storia dell’economia, della società, della politica interna statunitensi. Lo stesso può dirsi della storia internazionale. Inoltre dagli Stati Uniti ci sono giunti importanti esempi di ricerche che, nell’ambito del movimento per l’internazionalizzazione della storia americana, studiano i legami concreti che si sono dati fra movimenti e idee sulle due sponde dell’Atlantico. Il campo dell’americanistica, quindi, sia pure in modo diffuso, si è ampliato, non ristretto e gli americanisti italiani, a mio avviso, debbono seguire con attenzione questi cambiamenti perché ne possono nascere intrecci positivi.

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In conclusione, il passato dell’americanistica storica mostra un quadro di difficoltà che è importante non dimenticare e studiare, perché si tratta di un capitolo della storia della cultura italiana postbellica che, sebbene minore, illumina aspetti significativi e male intesi.

Quanto al presente ritengo che gli americanisti debbano senza dubbio difendere la cittadella accademica della “Storia degli Stati Uniti”, per la ragione molto pratica che nel mondo accademico le etichette disciplinari consentono alle generazioni di studiosi di perpetuarsi. Al tempo stesso, però, essi non possono vedere il proprio sopravvivere e fiorire legati al mantenimento del monopolio disciplinare sulla storia nazionale statunitense, al contrario, è fondamentale che seguano il movimento in atto nelle scienze storiche e portino gli Stati Uniti all’interno di altre discipline, sia intrecciando rapporti scientifici con chi le pratica, sia facendole proprie e insegnandole.

Non intendo proseguire stendendo una sorta di manifesto programmatico che assomiglierebbe a un elenco di buone intenzioni tanto più strambo e ridicolo in quanto proposto da chi ha ormai terminato il proprio percorso. Mi limito, allora, a ripetere che le prime quattro generazioni di americanisti hanno operato in un periodo assai diverso da quello odierno oppure nel quale si cominciavano a manifestare trasformazioni le cui conseguenze si apprezzano a pieno soltanto ora. Ora, quindi, gli americanisti ancora attivi – e la quinta generazione – dovrebbero, a mio avviso, porsi il problema del senso che lo studio della storia statunitense può avere in un mondo in cui sia la realtà geopolitica e sociale, sia le trasformazioni datesi nelle scienze storiche e nel loro ruolo culturale hanno reso obsoleto il quadro in cui hanno operato fino a un passato recente.


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