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“Fatti e idee”: Le trasformazioni del mondo atlantico e la “disputa del Nuovo Mondo” (sec. XVIII–XIX)

Il contributo riprende e sviluppa temi e motivi presentati a Torino il 23 novembre 2012 nell’ambito del seminario “Storia atlantica e storia transatlantica: periodizzazioni, confini e concettualizzazioni tra modernistica e contemporaneistica”. Ringrazio gli organizzatori per l’occasione, e i colleghi convenuti a Torino per le osservazioni e le critiche, che hanno costituito uno stimolo prezioso nella stesura di questo scritto.

I. Il mondo atlantico e il dibattito sul Nuovo Mondo nella prima età moderna

La “disputa del Nuovo Mondo”, trasformata in anni ormai lontani da Antonello Gerbi in un oggetto storiografico a tutto tondo, 1 non nasce affatto nel Settecento. Sin dai primi viaggi colombiani, com’è ben noto, sullo sfondo della graduale e frastagliata formazione di un mondo atlantico all’interno del quale circolano intensamente, e nel segno di un’evidente asimmetria a favore degli Europei, uomini, beni, idee, modi di sentire, il problema dello statuto, spaziale e antropologico, delle Americhe e del destino dell’espansione verso Occidente si impone agli uomini del tempo, alimentando la formazione di un ricco corpus di immagini, giudizi e pregiudizi ora a favore ora contro il “nuovo continente” e gli insediamenti coloniali in quelle regioni. 2

La vocazione atlantica della nascente Europa moderna, 3 segnata dalla frattura in seno al Cristianesimo latino, e da un antagonismo nei confronti delle aspirazioni egemoniche degli Asburgo di Spagna destinato ad assumere una proiezione virtualmente planetaria all’epoca dell’unione delle corone iberiche (1580–1640), favorisce la formazione di due vere e proprie cornici ideologiche, convenzionalmente denominate leyenda rosa e leyenda negra. 4 Due “immagini-guida”, le possiamo anche definire, che si strutturano a partire da una lettura di segno opposto, e orientato sul piano confessionale, delle esperienze e delle fonti a disposizione sul Nuovo Mondo. Così, la meraviglia e la ripulsa, gli interessi concreti e le aspirazioni politico-economiche, l’imperialismo culturale e lo slancio religioso del mosaico di attori operante al di qua e al di là dell’Atlantico che alimenta simile circolazione di notizie e saperi si sarebbero tradotti ora nella tenace rivendicazione dei “giusti titoli” della conquista spagnola e del carattere provvidenziale della scoperta del Nuovo Mondo, assurto, grazie alla missione evangelizzatrice, a nuova frontiera di un cattolicesimo in ripiegamento in Europa. Ora, invece, nel suo ancipite contrario. 5

Attraverso la traduzione nei principali idiomi europei della Brevísima relación de la destrucción de las Indias di Bartolomé de las Casas, e la campagna iconografica che accompagna la versione in latino del testo indirizzato dal domenicano al re di Spagna perché ponga fine alle violenze dei suoi indegni vassalli, apparsa a Francoforte nel 1598 (Casas 1598), la conquista castigliana si staglia agli occhi degli ambienti espansionistici e dei lettori lato sensu protestanti come la “guerra ingiusta” per antonomasia: impresa disordinata, arbitraria e predatoria, condotta da individui che Las Casas ha a suo tempo paragonato a tigri e leoni, rei dei peggiori atti di crudeltà nei confronti di un mondo indigeno che, a causa della ricezione “letterale” della fonte lascasiana, e della sua fortunatissima resa iconografica, viene cristallizzandosi nell’immaginario dell’Europa ostile agli Asburgo di Spagna nel segno del tutto prevalente del primitivismo.

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Illustrazione della Brevísima relación di Las Casas realizzata da Theodor de Bry (XVI sec.) che mostra la supposta brutalità degli spagnoli nei confronti dei nativi americani.

Illustrazione della Brevísima relación di Las Casas realizzata da Theodor de Bry (XVI sec.) che mostra la supposta brutalità degli spagnoli nei confronti dei nativi americani.

Non sorprende così che nelle regioni europee gravitanti nell’orbita ispano-cattolica la Brevísima relación di Las Casas, inopinatamente trasformatasi, grazie all’edizione a stampa sivigliana del 1552 (Casas 1552) e alle traduzioni, nella fonte par excellence della leyenda negra, venga accolta con sospetto, e data alle stampe solo in congiunture politico-internazionali del tutto eccezionali. 6 Né sorprende l’adesione alla leyenda rosa da parte delle società di antico regime del mondo ispano-cattolico, in Europa e nel Nuovo Mondo. Un’adesione che bisogna sempre decostruire, per coglierne la fisionomia specifica in relazione ai contesti storici e socio-etnici, ma che comincia a essere messa in discussione soltanto fra Sette e Ottocento, al momento della frattura, psicologica e politica, che attraversa il mondo atlantico all’epoca delle riforme, delle rivoluzioni e delle indipendenze. 7

Proprio in quel frangente di tumultuoso cambiamento, e di conseguente spettacolare intensificazione della circolazione atlantica di notizie, idee, modelli politico-economici e culturali alternativi, si registra a ben vedere la prima effettiva diffusione nel mondo ispano-cattolico, europeo e americano, della leyenda negra. All’epoca delle Cortes di Cadice, e in prossimità della frantumazione dell’America spagnola in un mosaico di nuovi soggetti politici, sarebbero stati in particolare i più accesi fautori dell’Indipendenza a ricorrere, non diversamente dai “ribelli” delle Province unite e dagli antagonisti degli Asburgo di Spagna nella prima età moderna, alla Brevísima relación di Las Casas. 8

Quanto agli ambienti espansionistici francesi, e soprattutto inglesi, nel Cinque-Seicento la leyenda negra esercita una considerevole influenza nel legittimare i processi di inserimento nel mondo atlantico e nelle terre americane di esploratori, mercanti e coloni. Una legittimazione che si fonda sulla programmatica condanna dei “metodi” della conquista spagnola icasticamente denunciati da Las Casas, e sulla rivendicazione, in alternativa, della centralità del diritto di vera occupazione e di “messa a coltura” di terre considerate vergini in quanto “deserte”, 9 vale a dire non stabilmente abitate da popolazioni native la cui immagine tende così a prendere forma nel segno prevalente, ancorché ancipite, del “selvaggio”. 10

Nonostante la vocazione missionaria degli ordini religiosi attivi nella Nuova Francia, e l’interesse suscitato dalla loro letteratura etnografico-edificante nelle culture europee coeve, né nell’America francese né, com’è più ovvio, nel mondo angloamericano, vengono intraprese campagne di evangelizzazione e di acculturazione paragonabili a quelle condotte sin dal primo Cinquecento dai religiosi al servizio della Corona spagnola. Campagne che, certo anche per le caratteristiche socio-culturali prevalenti nelle popolazioni native 11 delle regioni soggette al dominio spagnolo, promuovono il radicamento della leyenda rosa nel mondo amerindiano coloniale.

Grazie alla cooptazione delle élites native, al disciplinamento, alla pedagogia per immagini, 12 e al riconoscimento, almeno sulla carta, della costumbre nel derecho indiano, l’adesione al cattolicesimo-romano e il lealismo verso il re lontano del mondo indigeno avrebbero così retto alla prova dei secoli. E ciò a dispetto di crisi spettacolari come la rivolta di Túpac Amaru II alla fine del diciottesimo secolo.

Nel corso della prima età moderna il carattere schiettamente multietnico e multiculturale dei processi di formazione storica delle Americhe favorisce ovviamente l’allignare, certo con tempi e forme profondamente distinti a seconda dei diversi contesti, di un sentimento di “americanità” 13 in cui si esprime, nei modi più cangianti, la valorizzazione della specificità del mosaico di esperienze che stanno mettendo radici nel nuovo continente.

Pur nel quadro del crescente maturare di simili identità locali, che si riverberano in un ricco corpus di fonti ormai da tempo al centro dell’attenzione della storiografia, dell’antropologia storica e della storia dell’arte, 14 fino al Settecento il dibattito sul Nuovo Mondo sarebbe tuttavia rimasto prevalentemente espressione, in Europa, dello sforzo di integrare la nuova realtà americana all’interno delle proprie coordinate intellettuali, della propria imago mundi, dei propri modelli politico-ideologici e religiosi. Al di là dell’Oceano, tale dibattito avrebbe invece teso a dare voce alle peculiarità sempre distinte di ambienti in cui la tensione verso l’occidentalizzazione del mondo amerindiano, e di un multietnico contesto coloniale in cui coesistono Nativi, Europei e Africani, si intreccia, certo, ancora una volta in forme e con intensità sempre diverse, con l’americanizzazione dei saperi e delle pratiche europei: dalla condotta della guerra alla diplomazia, dalla demografia al diritto, dalla politica all’economia, dalla religione alle lingue, dall’urbanistica alle arti.

II. Il riorientamento eurocentrico del mondo atlantico nel XVIII secolo e le origini della “Disputa del Nuovo Mondo”

Nel corso del Settecento, sullo sfondo di una sostanziale intensificazione dei legami atlantici, il dibattito sul Nuovo Mondo evocato nelle pagine precedenti si trasforma gradualmente, ma non meno irreversibilmente, in un serrato contraddittorio dal respiro intercontinentale. Un confronto che vede schierati, “gli uni contro gli altri armati”, i detrattori e gli apologeti dell’America: gli europeisti e gli americanisti, si potrebbe anche dire, con tutte le loro varianti, legate ai diversi contesti politico-culturali e alle differenti congiunture internazionali.

Depotenziato l’antagonismo più schiettamente confessionale tipico delle cornici ideologiche della leyenda rosa e della leyenda negra, che durante la prima età moderna hanno svolto efficacemente la loro funzione di “immagini-guida”, a farsi strada nel diciottesimo secolo è in effetti una nuova visione dei rapporti che uniscono l’Europa al Nuovo Mondo e dell’America tout court. Una visione che, pur affondando le sue radici nel dibattito delineatosi a partire dall’epoca di Colombo, tende ad assumere un registro per molti versi inedito rispetto al passato, 15 ispirato, al di qua dell’Atlantico, dalla volontà di sistematizzare secondo un principio di razionalità il patrimonio americanistico della prima età moderna.

Simile mutamento culturale non avrebbe tardato a sollecitare le reazioni degli americani. Al di là dell’Atlantico, a consolidarsi è così nel corso del secolo un senso di appartenenza che potremmo definire a un tempo locale ed emisferico (cfr. Bauer 2009), che matura grazie alla sempre più consapevole valorizzazione della specificità dell’esperienza americana in seno al mondo atlantico.

Nel suo costante intrecciarsi con le trasformazioni geopolitiche e politico-istituzionali che attraversano tale spazio intercontinentale nel diciottesimo secolo, il confronto sul Nuovo Mondo contribuisce da un lato alla maturazione del paradigma eurocentrico, con la sua visione geometrizzante e progressiva della storia del genere umano, e dall’altro all’emergere di un americanismo dai contenuti politici e “nazionali”. Un americanismo che attinge a piene mani alle culture atlantiche, rivendicando tuttavia in chiave ormai apertamente anti-eurocentrica le potenzialità dell’emisfero americano, della sua natura, della sua storia, del suo avvenire. 16

L’inasprirsi dei toni del dibattito settecentesco sul Nuovo Mondo fino alla sua trasformazione in una vera e propria disputa atlantica, pronta da allora a riaccendersi ogniqualvolta le circostanze storiche sollecitino le sensibilità e le culture politico-ideologiche dei diversi attori del mondo occidentale, 17 non si esaurisce insomma in un fenomeno erudito o in un capitolo di una storia delle idee isolata dal contesto in cui simili rappresentazioni maturano e si trasformano.

Anche se è ovvio che le immagini tendono via via a cristallizzarsi, assumendo vita propria, e diventando per questa via importanti e autonome componenti dell’esperienza storica, 18 è indubbio che le concezioni, le ossessioni, gli stereotipi della “Disputa del Nuovo Mondo”, di cui Gerbi ci ha restituito un insuperato profilo e le molteplici genealogie atlantiche, emergano nel Settecento nell’ambito di un sostanziale cambio di passo nei rapporti fra l’Europa e le Americhe. Un mutamento di cui si avvertono le avvisaglie sin dalla Guerra di successione spagnola (1701–1713/1714).

Virtualmente “mondiale”, per i teatri e gli interessi in gioco, questo lungo conflitto non sancisce soltanto il tramonto della Spagna imperiale, e la conseguente trasformazione della leyenda negra dell’espansione castigliana nel Nuovo Mondo da strumento propagandistico a patrimonio più schiettamente storiografico, la cui influenza a livello europeo, americano e poi globale è avvertibile fino ai giorni nostri. 19 Le clausole in materia economico-commerciale contenute nella Pace di Utrecht portano in effetti anche a una prima apertura “legale” dell’impero spagnolo, con l’effetto di intensificare nei decenni successivi la competizione atlantica del sistema degli Stati europei.

Che al centro dell’agenda delle metropoli del Vecchio Mondo sin dalla prima metà del Settecento cominci a stagliarsi il problema della sicurezza dei territori d’oltremare, dei monopoli commerciali e dei confini fra i rispettivi imperi americani non è insomma sorprendente. Anche se va osservato che, fino alla fine della Guerra dei sette anni, la volontà europea di affermare il principio dell’autorità metropolitana non travalica di norma i limiti di tolleranza del tradizionale “ostruzionismo” coloniale, icasticamente riassunto, con riferimento al caso ispanoamericano, nell’adagio “la ley se acata, pero no se cumple”.

Per quanto il dibattito sulla riforma dei patti coloniali si manifesti prima che la Guerra dei sette anni sovverta la geopolitica del Nord America, proiettando al tempo stesso la competizione interna al sistema degli Stati europei a livello globale, è tuttavia soltanto a partire dal 1763 che il tema tende a trasformarsi in un assunto improrogabile per metropoli europee: 20 in primis Londra e Madrid, che vi si accingono sull’onda della necessità di tutelare i propri (antichi o giovanissimi) imperi, lungo i filoni, intrecciati, della difesa dei territori e dei mezzi finanziari per sostenerla, 21 della riorganizzazione della geografia amministrativa 22 e della “modernizzazione” istituzionale ed economica delle sempre più variegate società americane. Società che, da parte loro, cominciano a prendere posizione nei confronti delle politiche poste in essere dopo il 1763, rivendicando il peso dei propri interessi americani e accingendosi alla formulazione di strategie di autolegittimazione in nome della rappresentanza, dell’autonomismo, del ribellismo, dell’indipendentismo, e naturalmente anche del lealismo delle Americhe verso l’Europa. Si tratta di un processo che catalizza non solo la circolazione delle idee su scala atlantica, ma anche la rielaborazione delle culture atlantiche in chiave sempre più schiettamente americana. 23

Nel quadro della riconfigurazione geopolitica indotta dalla Guerra dei sette anni, e dell’urgenza di un nuovo stile nelle relazioni con i territori d’oltremare che ne deriva, il plurisecolare confronto, ideologico e intellettuale, intorno alle “Indie” tende così ad assumere il profilo di un’infuocata polemica ricca di implicazioni lato sensu politiche. A confermarlo, è la stretta contiguità cronologica fra l’avvio dei progetti di riforma “post-1763” nell’America britannica e nell’America spagnola e la fioritura di un’ampia produzione editoriale sul Nuovo Mondo nella quale, fra eulogia e denigrazione, i registri della scienza, della storiografia, delle nascenti discipline socio-economiche si intrecciano con quelli dell’ideologia, dell’utopia, dell’esotismo, della filantropia, dell’abolizionismo.

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L’espulsione dei gesuiti dalla Spagna (1767).

L’espulsione dei gesuiti dalla Spagna (1767).

Si pensi in simile prospettiva al ruolo assunto in seno alla “Disputa del Nuovo Mondo” dai Gesuiti espulsi nel 1767 dall’America spagnola. Il provvedimento di Carlo III, una delle espressioni più compiute del regalismo borbonico, non soltanto suscita reazioni, anche molto violente, nei territori ispanoamericani, ove i religiosi della Compagnia esercitano per tradizione un’influenza profonda, configurandosi da secoli come la punta di diamante degli ambienti intellettuali locali e come i promotori di una strategica attività missionaria lungo le frontiere dell’impero spagnolo.

Com’è ben noto, dal loro esilio italiano, i membri delle province ispanoamericane dell’ordine non avrebbero tardato a costituire anche un pugnace partito “americanista”, pronto a intervenire con autorevolezza, e sulla base della sicura conoscenza delle posizioni ideologiche e storiografiche dei propri avversari, nella “Disputa del Nuovo Mondo”, 24 il cui casus belli è legato all’uscita nel 1768, a ridosso dell’espulsione dei Gesuiti dall’America spagnola e mentre il patto coloniale angloamericano versa ormai in crisi, delle Recherches sur les Américains di Cornelius de Pauw (1768). 25

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Recherches sur les Américains - De Pauw
Significativamente sottotitolate Mémoires intéressants pour servir à l’histoire de l’espèce humaine, a conferma della tendenza da parte degli intellettuali europei del secondo Settecento ad accostare l’America attraverso il serrato confronto, ora erudito ora peregrino, con le altre parti del mondo, 26 la corposa sintesi di de Pauw deve per molti versi la sua fortuna proprio a simile congiuntura atlantica.

Pedante più che dotto, provocatorio più che penetrante, il testo si presenta con sicurezza al pubblico europeo come un trattato scientifico, costruito a partire da una rilettura “raisonnable” delle fonti americanistiche sedimentate nel corso della prima età moderna. Fonti di cui de Pauw denuncia con severità la (presunta) inattendibilità. 27 Guidato da un geometrizzante quanto libresco eurocentrismo, il philosophe considera simili documenti partigiani, inaffidabili e prodotto di un “entusiasmo” di fronte alla “scoperta” delle Americhe che avrebbe, a suo dire, ottenebrato per secoli la capacità di giudizio di viaggiatori, esploratori, colonizzatori, missionari, scienziati e trattatisti. 28

Sprezzante nei confronti della consistenza dei saperi americanistici, e indifferente di fronte all’esistenza al di là dell’Oceano di società coloniali forgiate da una plurisecolare esperienza diretta del Nuovo Mondo, i cui componenti più engagés non avrebbero infatti tardato a rispondergli “a tono”, de Pauw apre il suo Discours préliminaire, presentando gli abitanti nativi del Nuovo Mondo come i protagonisti del “chapitre le plus curieux, & moins connu de l’Histoire de l’Homme” (de Pauw 1768, III). Un ritratto che accentua la distanza fra le due sponde dell’Atlantico, proiettando su tutti gli americani (aborigeni e non) un giudizio negativo, nel segno, inappellabile, dell’inferiorità, della degenerazione e della subordinazione rispetto a quell’Europa che, all’alba della modernità, ha, parole di de Pauw, che attinge ampiamente alla Brevísima relación di Las Casas, vinto, soggiogato, e come inghiottito, il Nuovo Mondo.

Il philosophe difende lungo tutta la trattazione simile giudizio, ispirato alla “superiorité de l’Europe” nei confronti dei popoli che europei non sono. Un giudizio che sottende tuttavia anche una sorta di ostilità verso il coevo dilatarsi su scala planetaria delle aspirazioni espansionistiche del Vecchio Mondo. “Si la génie de la désolation & des torrents de sang, précèdent toujours nos conquérants, n’achetons pas l’éclaircissement des quelques point de géographie, par la destruction d’une partie du globe, ne massacrons pas les Papous, pour connoître au Thermomètre de Réamur, le climat de la Nouvelle Guinée” (de Pauw 1768, VII), osserva infatti de Pauw. “Si ceux qui prêchent la vertu chez les nations policées, sont trop vicieux eux-mêmes, pour instruire des sauvages sans les tyranniser, laissons végéter ces sauvages en paix, plaignons-les, si leurs maux surpassent les nôtres, & si nous ne pouvons contribuer à leur bonheur, n’augmentons pas leurs misères” (de Pauw 1768, VIII), aggiunge poco più avanti, dando voce a una vena di anticolonialismo.

Nelle pagine conclusive dell’apologia, allegata alla nuova edizione berlinese del 1770, in risposta alle prime reazioni critiche nei confronti delle Recherches emerse negli ambienti intellettuali europei, 29 de Pauw avrebbe ribadito proprio sulla base degli esiti della conquista e della colonizzazione del Nuovo Mondo, e di un confronto fra i (presunti) livelli di civiltà raggiunti lungo le due sponde dell’Atlantico, la superiorità a tutto tondo dell’Europa: “L’Europe a conquise l’Amérique, & elle la tient sous le joug avec autant de facilité que l’Empire romain tenait la Corse ou la Sardigne”, afferma perentorio (de Pauw 1768, 227).

La sicurezza del dotto olandese colpisce lo studioso di oggi. Non solo de Pauw sembra indifferente nei confronti della complessità geografica ed etnico-culturale del mosaico degli insediamenti americani, che annoverano al loro interno gli immensi imperi iberici, i ricchi Caraibi francesi, le enclaves olandesi, il “nuovo” impero britannico, le grandi frontiere indiane nel Nord e nel Sud del continente. A ben vedere, egli pare altresì indifferente verso gli elementi di crisi evidenti nel mondo atlantico coevo.

La miopia del philosophe è però sorprendente solo fino a un certo punto. Per un intellettuale eurocentrico, nello sguardo e nei valori, come de Pauw, l’America degli anni Sessanta del diciottesimo secolo si configura in effetti soltanto come una delle parti del mondo verso il quale si indirizza lo slancio espansivo ormai virtualmente planetario dell’Europa-civilisation. “Si à tout-cela”, osserva, con riferimento al dominio europeo nelle Americhe, “on ajoute les conquêtes que les Européens ont faites en Afrique, en Asie, & au centre même de ce formidable empire du Mogol, alors il faut bien supposer que ces Européens surpassent autant les autres nations du Monde pour leur bravoure qu’ils les surpassent par leur connaissances dans les arts & dans les sciences. L’Europe est le seul pays dans l’Univers où on trouve des Physiciens et des Astronomes” (de Pauw 1768, 227).

Generatrice dell’avvio di una crisi che nell’arco di tredici anni avrebbe determinato lo spettacolare scioglimento dei legami politici fra le colonie britanniche del Nord America 30 e l’Inghilterra, aprendo la strada a una stagione rivoluzionaria per il mondo atlantico coronata dalla frantumazione delle “Indie” spagnole nel primo Ottocento, 31 la Guerra dei sette anni segna altresì l’inizio, certo solo l’inizio, di un profondo riorientamento dei rapporti Europa-Mondo. Un riorientamento eurocentrico, del tutto aurorale nel secondo Settecento, e cionondimeno tangibile nel nuovo slancio delle spedizioni nel Pacifico e in Oceania, e nelle prime avvisaglie del modificarsi dello stile di relazione degli Europei con i grandi attori politici asiatici: dall’Impero Ottomano alla Cina sino al Giappone dei Tokugawa, 32 il cui regolato sistema di rapporti con l’esterno comincia a incrinarsi di fronte all’intensificazione dell’attivismo nel Pacifico orientale di nuovi attori “europei”: in primis la Russia. 33

La dimensione ormai planetaria in cui si esplica la competizione fra le principali potenze europee, e l’incremento delle conoscenze geografiche ed etnografiche relative ai diversi continenti, 34 contribuiscono al tempo stesso ad accreditare, come conferma il registro adottato da de Pauw nelle sue Recherches, nelle culture atlantiche del secondo Settecento un’immagine che abbiamo già definito emisferica dell’America, toponimo di origine umanistica che entra nell’uso proprio in questo periodo. 35 Un’immagine, nel caso di de Pauw sostanzialmente negativa, al cui interno si fa strada una rappresentazione del genere umano fondata sul criterio, così ricco di ambivalenze al di qua e al di là dell’Atlantico, di “razza”. 36

Dato un simile contesto internazionale, si può comprendere perché dopo il 1763 il mondo atlantico cominci a configurarsi agli occhi degli europei dell’epoca come uno dei molteplici teatri mondiali ove si registra l’espansione del Vecchio continente. Il che non toglie che si tratti del più vicino e significativo, per il respiro storico, politico-economico, religioso e culturale assunto nel corso di oltre due secoli dai rapporti Europa-Americhe.

III. Dalle riforme alle Indipendenze: prospettive locali, dimensioni continentali e orizzonti globali nel mondo atlantico.

L’immagine depauwiana dell’America non tarda a surriscaldare la “Disputa del Nuovo Mondo”. Sullo sfondo vi è l’escalation che, dalla crisi del patto coloniale angloamericano, attraverso la Dichiarazione di indipendenza, porta da un lato alla vittoria delle Tredici colonie e alla formazione del primo attore politico indipendente oltreoceano. 37 E dall’altro, all’accelerazione delle riforme in materia militare, amministrativa, commerciale ed economica nell’America spagnola, che, di fronte alla crisi britannica, dilata le sue frontiere settentrionali e meridionali.

De Pauw, lo abbiamo già sottolineato, ha costruito la sua rappresentazione del Nuovo Mondo, una rappresentazione dal respiro (pseudo)scientifico e geometrizzante, passando al vaglio di un razionalismo deduttivo il ricco corpus di informazioni confluito nei secoli precedenti entro le due cornici ideologiche contrapposte della leyenda rosa e della leyenda negra, e le osservazioni raccolte nel corso del Settecento dagli esploratori e navigatori al servizio delle grandi potenze europee.

La svalutazione da parte del philosophe dell’esperienza americana e delle tradizioni americanistiche della prima età moderna, e la tendenza a esaminare le forme di organizzazione socio-politica e culturale del genere umano a livello planetario, favoriscono, come pure già si è osservato, una sempre più netta distinzione fra i continenti e i loro abitanti nonché una loro tendenziale gerarchizzazione sulla base di un etnocentrico “standard di civiltà” modellato sull’esperienza dell’Europa del Settecento. 38 Con il risultato di trasformare le Americhe in un emisfero di cui, ora nel solco di de Pauw ora contro le posizioni del philosophe, gli intellettuali, i polemisti e i poligrafi europei dell’epoca, spettatori a distanza dei processi di riorientamento eurocentrico in corso nel mondo atlantico e sul piano globale, tendono a sottolineare la primordialità della natura, l’“autoctonia” degli abitanti, nativi e creoli, le prospettive e i limiti delle diverse esperienze coloniali.

De Pauw e i suoi epigoni europei avrebbero pagato a caro prezzo la propensione a estendere, in ragione di un apodittico determinismo climatico, anche ai creoli americani l’accusa di degenerazione e incapacità affibbiata agli Amerindi e alla storia “precolombiana”. Per il loro carattere tranchant, le Recherches non tardano in effetti a diventare oggetto di confutazioni destinate a incidere sul palinsesto della “Disputa del Nuovo Mondo” e a costituire l’humus di altrettanti topoi della nascente retorica americanistica anti-eurocentrica.

In simile prospettiva, la History of America di Robertson (1777), la Storia antica del Messico dell’ex-gesuita Clavijero (1780–1781) e le Notes on Virginia di Thomas Jefferson (1781–1782) 39 offrono un ampio ventaglio di temi e motivi, destinati a orientare le mutue percezioni euro-americane e interamericane dei decenni e del secolo a venire.

Guidato da un atteggiamento di viva prudenza nei confronti del dirompere della Guerra d’indipendenza angloamericana, lo scozzese Robertson presenta l’America come un continente, descrivendone il profilo naturale e storico-antropologico a partire da una nozione schiettamente eurocentrica di refinement in cui si avverte l’eco dell’immagine depauwiana di un emisfero caratterizzato da una natura troppo spesso inospite, appena scalfita dall’azione dell’uomo, e di una visione, per quanto residuale, “alla las Casas” della conquista. Robertson tende altresì, nel solco di de Pauw, a minimizzare il rilievo delle fonti native, preispaniche e coloniali. 40 Una valutazione che Clavijero non avrebbe mancato di rimproveragli aspramente.

La History of America si fa così veicolo di un’idea di una modernità europea dal respiro intrinsecamente atlantico, conferendo all’espansione castigliana il carattere di primo, pionieristico ancorché “arcaico”, capitolo di una storia atlantica che nasce e si struttura attraverso l’espansione europea verso il Nuovo Mondo.

Pur essendo pronti a riconoscere il valore, di metodo e di contenuto, dell’opera di Robertson, che ha significativamente riabilitato le fonti spagnole della prima età moderna, sottraendole alla condanna della leyenda negra e alla svalutazione di de Pauw, i “creoli”, tanto nel mondo ispanofono quanto in quello angloamericano, non sono invece disposti a condividere le perplessità, di matrice depauwiana, dell’autore verso la natura del continente americano e le qualità antropologiche e culturali delle popolazioni, delle società e delle civiltà che in esso, lungo la linea del tempo, hanno messo radici. 41

Al di là del suo fine più schiettamente storiografico, l’opera di Clavijero va considerata pertanto come una risposta dal forte portato “avvocatesco” alle accuse mosse da de Pauw al mondo “precolombiano” e accolte, sia pure in misura assai minore, da Robertson. Diversamente da Thomas Jefferson, che trasforma per molti versi la Virginia nel cuore di una concezione continentale dei nascenti Stati Uniti, Clavijero tende invece a isolare proprio una regione specifica, per tradizione e caratteristiche naturali, all’interno di un’America “preispanica” e coloniale, ch’egli pone cionondimeno sullo stesso piano storico-culturale dell’Europa e di cui, da messicano, difende con vigore la provvidenziale conversione al cattolicesimo.

Lettore attento degli autori ispanofoni del dibattito primo-moderno sul Nuovo Mondo e della “Disputa”, anche Jefferson coglie le potenzialità di una valorizzazione in chiave anti-eurocentrica della storia “antica” del continente americano (Bauer 2009, passim). A differenza di Clavijero, tuttavia, egli stabilisce contestualmente una netta distinzione fra gli americani nativi e gli americani di origine europea, che diventano i depositari dell’avvenire del nuovo continente. 42 E ciò sulla base di una divisione razziale del genere umano che autori europei come de Pauw tendono invece a collegare all’influenza, più che del dato biologico, della natura dei diversi continenti sui rispettivi abitanti.

Tanto Clavijero quanto Jefferson hanno composto le loro opere per un destinatario elettivo: l’Europa del tardo Settecento, sensibile, al di là delle diverse posizioni, all’influenza dell’immagine depauwiana. Un’Europa che assiste, più o meno attonita, all’Indipendenza degli Stati Uniti, e poi all’irreversibile trasformazione della Rivoluzione francese in un’imponente questione atlantica (e invero anche globale, ovviamente dal punto di vista del sistema degli Stati europei, se si tiene conto della proiezione planetaria assunta dell’antagonismo anglofrancese).

L’apertura di questo amplissimo fronte di crisi avrebbe in un breve torno di anni conferito a simili motivi anti-eurocentrici e americanistici una nuova centralità nella rimodulazione delle mutue percezioni tanto in seno ad un mondo atlantico ove va delineandosi un’irreversibile frattura politica, quanto all’interno delle stesse nascenti Americhe indipendenti.

Mentre gli Stati Uniti capitalizzano gli effetti della destrutturazione prodotta nel Nord America da tale epocale congiuntura, guadagnando per via diplomatica nel 1795 43 il diritto di accedere al Golfo del Messico, e acquistando poi, fra il 1803 e il 1819, la Louisiana e la Florida, primi decisivi tasselli di una espansione continentale della quale avrebbe fatto le spese il Messico indipendente, 44 la dimensione tellurica, l’esaltazione del passato indigeno e la (ancipite) tutela del cattolicesimo si trasformano nei tratti fondatori del nascente americanismo politico ispanoamericano. Un americanismo, com’è ovvio, ricco di linee di tensione se lo si studia in relazione ai diversi contesti e ai vari momenti, che, cionondimeno, attinge piuttosto unanimemente al discorso della leyenda negra antispagnola e, almeno sulla carta, ai modelli politici e costituzionali di matrice liberale 45 per suggellare la rescissione del legame con la metropoli.

La rottura dei patti coloniali che hanno unito sin dalla prima età moderna i vari territori del continente americano alle rispettive madrepatrie, e la formazione oltreoceano di un mosaico di nuovi Stati, per lo più, lo si è appena sottolineato, a regime repubblicano, costituiscono eventi davvero rivoluzionari nell’ambito della storia del mondo atlantico. E ciò a dispetto della presenza di evidenti importanti elementi di continuità con il passato: a partire dalla presenza della schiavitù (cfr. Benzoni 2012, 167–186, passim; cfr. anche Benzoni 2008).

Basti esaminare ancora una volta il registro schiettamente “emisferico” adottato nel celebre discorso di James Monroe del 2 dicembre 1823 e, di lì a poco, nella Convocatoria per il congresso di Panamá inviata da Bolivar dal Perù alla fine del 1824. In quel biennio carico di incertezze in relazione alla condotta delle potenze europee nei confronti delle Indipendenze ispanoamericane, tanto gli USA, memori della recente guerra con l’Inghilterra, 46 quanto il Libertador, attento di fronte al rischio di una possibile revanche di Ferdinando VII, 47 presentano l’America come uno spazio geopolitico autonomo, un continente “repubblicano”, posto a metà strada fra l’Asia e l’Europa, e separato da quest’ultima da un oceano, l’Atlantico, che nel corso del diciannovesimo secolo avrebbe tuttavia registrato, proprio in ragione dell’accelerazione dei processi di americanizzazione delle ex-“colonie” europee, 48 una spettacolare intensificazione dei processi migratori e dei circuiti economici, commerciali e culturali. E così, nonostante l’isolazionismo degli Stati Uniti, che si trasformano gradualmente in una repubblica continentale, erede per molti versi dei progetti di espansione occidentale verso l’Asia coltivati sin dalla prima età moderna dagli imperi europei nelle Americhe, fino al (1898, 49 1914 50) 1917, 51 il mondo atlantico avrebbe continuato a costituire un orizzonte del tutto privilegiato per l’Europa ottocentesca, che, grazie al temporaneo monopolio della rivoluzione industriale, comincia a sovvertire a proprio vantaggio gli equilibri mondiali, arrivando a occupare un’enorme porzione delle terre emerse.

La rescissione dei vincoli politici euroamericani, le cui più antiche radici abbiamo rintracciato negli esiti della Guerra dei sette anni a metà del diciottesimo secolo, segna cionondimeno una frattura non ricomponibile all’interno del mondo atlantico. Com’è ben noto, appena usciti da una spaventosa guerra civile che prefigura i conflitti dell’età industriale, gli Stati Uniti appoggiano con successo in nome della vocazione emisferica della Dottrina Monroe la resistenza dei repubblicani messicani di fronte al tentativo di rilancio di un progetto imperiale europeo nel Nuovo Mondo. 52 Il che non toglie che, proprio l’ascesa degli Stati Uniti, favorisca la formazione di un’America “latina”, la quale, soprattutto a partire dal secondo Ottocento, si sarebbe accostata alla civilisation europea, e alla sua tradizione mediterraneo-continentale.

Note:

  1. Sull’ethos di Gerbi americanista, la genesi e la vicenda editoriale de La disputa del Nuovo Mondo, mi permetto di segnalare Benzoni 2012, 208–222. Cfr. Perassi e Pino 2009.
  2. La bibliografia in argomento è vastissima. Lo studio di J. Cañizares Esguerra (2007) ricostruisce in modo persuasivo il rapporto fra questa imponente tradizione americanistica e le nuove epistemologie e pratiche storiografiche del diciottesimo secolo atlantico.
  3. I tanti “Atlantici”, avrebbe detto Chaunu, che vengono a comporre il mondo atlantico nel corso dell’età moderna: a partire dall’Atlantico iberico del quindicesimo secolo, che fa centro negli arcipelaghi, e si articola lungo le coste occidentali dell’Africa, per poi aprirsi inopinatamente verso Occidente a partire dal 1492 nel rispetto dei términos del Trattato di Alcáçovas (1479).
  4. In merito all’influenza di queste due cornici ideologiche sulle attitudini americanistiche delle culture europee e atlantiche dell’età moderna, mi permetto di rinviare ancora a Benzoni 2012, 41–64 e 187–207.
  5. Si consideri il celebre incipit della Historia general de las Indias del cronista spagnolo López de Gómara (1552): “La mayor cosa después de la creación del mundo, sacando la encarnación y muerte del que lo crió, es el descubrimiento de las Indias; y así las llaman Mundo Nuevo”. E lo si confronti con alcuni dei punti trattati nel non meno celebre Discourse on Western Planting di Hakluyt (1584): “1) That this westerne discoverie will be greately for the inlargement of the gospell of Christe whereunto the Princes of the refourmed relligion are chefely bounde amongest whome her Majestie is principall; 2) That all other englishe Trades are growen beggerly or daungerous, especially in all the kinge of Spaine his Domynions, where our men are dryven to flinge their Bibles and prayer Bokes into the sea, and to forsweare and renownce their relligion and conscience and consequently theyr obedience to her Majestie … 11) That the Spaniardes have executed most outragious and more then Turkishe cruelties in all the west Indies, whereby they are every where there, become moste odious unto them, whoe woulde joyne with us or any other moste willingly to shake of their moste intollerable yoke, and have begonne to doo it already in dyvers places where they were Lordes heretofore.
  6. Ben noti i casi della traduzione apparsa a Venezia all’epoca della Guerra dei trent’anni e dell’edizione catalana del 1646. Per le edizioni della Brevísima relación nel contesto delle Indipendenze ispanoamericane, v. infra.
  7. V. infra.
  8. Il contributo dell’esule novoispano Fray Servando Teresa de Mier nella diffusione atlantica del testo lascasiano è ben noto. Cfr. le edizioni in spagnolo di Londra (1812), Filadelfia (1821) e Città del Messico (1822).
  9. La declinazione dell’argomento giuridico della “res nullius” da parte inglese e francese è stato affrontato con finezza da Pagden 2005, 115–173, passim.
  10. Fino allo storico tournant della Guerra dei sette anni, gli Amerindi nordamericani si configurano da parte loro ora come attori subordinati ora come partners ora come incerti alleati ora, infine, come esterni spettatori a distanza nell’ambito della complessa trama di relazioni che intercorrono fra le popolazioni native e i coloni francesi e inglesi. Per un’introduzione in merito alla formazione storica di un immaginario del nativo nel mondo coloniale angloamericano, e alle relative ambiguità, funzionali ai rapporti di forza in essere, si può partire da Jennings 1991.
  11. Sugli indios bravos e le relazioni fra gli Spagnoli e il mondo amerindiano esterno al sistema delle “due repubbliche”, si vedano gli studi di David Weber.
  12. Sui tempi e le forme dell’occidentalizzazione dell’immaginario nativo, con riferimento al caso messicano, cfr. l’ormai classico studio Gruzinski 1988.
  13. “La denominazione ‘Nuovo Mondo’ deve in fondo la sua più autentica natura proprio all’interazione, spesso catastrofica, di norma violenta e sem­pre asimmetrica, fra gruppi umani costretti dalla forze delle cose a lasciarsi alle spalle un ‘vecchio mondo’, e con esso una più antica visione del mon­do, e a ridefinire le proprie abitudini di vita e i propri valori in un quadro di segno multiculturale. Le Americhe in età moderna nascono da simile epico incontro” (Benzoni 2012, 8). Un incontro che coinvolge Amerindi, Europei, Africani e finanche i primi Asiatici.
  14. In simile prospettiva, il contributo di Gruzinski si distingue per lo studio delle connessioni fra queste esperienze locali e gli orizzonti della mondializzazione e della prima globalizzazione. Per un’introduzione all’itinerario di ricerca dell’americanista francese, si può vedere ancora Benzoni 2012, 79–94.
  15. In merito a questo mutamento, di sensibilità, e di carattere epistemologico, v. ancora Cañizares Esguerra 2007, passim.
  16. Per un’introduzione a proposito di tali temi, si può vedere ancora Benzoni 2012, 167–186.
  17. Pur nella consapevolezza di rischiare l’anacronismo, si pensi alla retorica che accompagna le stagioni dell’isolazionismo, dell’americanismo, dell’antiamericanismo nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo.
  18. Sempre suggestivo, a questo proposito, il passo che segue, tratto da Canetti 1994: “Una via verso la realtà … passa attraverso le immagini. Non credo che ne esista una migliore. Ci teniamo stretti a ciò che non muta perennemente. Le immagini sono reti, quel che vi appare è la pesca che rimane. Qualcosa scivola via, e qualcosa va a male, ma uno riprova, le reti le portiamo con noi, le gettiamo e, via via che pescano, diventano più forti. È importante però che queste immagini esistano anche al di fuori della persona, in lui sono anch’esse soggette al mutamento. Deve esserci un luogo dove uno possa ritrovarle intatte, e non solo uno di noi, ma chiunque si senta nell’incertezza. Quando ci sentiamo sopraffatti dal fuggire dell’esperienza, ci rivolgiamo a un’immagine. Allora l’esperienza si ferma, e la guardiamo in faccia. Allora ci acquietiamo nella conoscenza della realtà, che è nostra, anche se qui era stata prefigurata per noi. Ma questa esperienza è ingannevole, l’immagine ha bisogno della nostra esperienza per destarsi. Così si spiega che certe immagini rimangano assopite per generazioni: nessuno è stato capace di guardarle con l’esperienza che avrebbe dovuto ridestarle”.
  19. Dalla manualistica scolastica al “pensare comune”, l’espansione castigliana, e più in generale l’espansione europea nelle Americhe, tende a essere presentata in chiave “lascasiana”, con la conseguenza di “infantilizzare”, come a suo tempo acutamente colto da Gerbi, il mondo nativo, che, da parte sua, viene fatto per molti versi uscire dalla storia e confinato nella categoria di “vinto”.
  20. È quanto suggerisce anche J.M. Fradera, con riferimento al caso spagnolo, allorquando osserva come “esta modificación de las relaciones de fuerza entre los paises comprometidos … que no ha sido nunca explicada como un todo, así cómo en el interior de las proprias economias y sociedades concernidas, es el escenario donde deben emplazarse razonablemente los cambios internos y externos en el espacio imperial español” (Fradera 2004, 162).
  21. La radicale semplificazione del quadro geopolitico del Nord America pone in effetti la Spagna, traumatizzata dall’occupazione di L’Avana e Manila, di fronte al problema della tutela del proprio immenso impero americano, che, con l’attribuzione a Madrid della Louisiana occidentale, da un lato dilata la sua proiezione in Nord America, misurandosi ormai dall’altro su scala globale con l’Inghilterra, di cui si teme l’attivismo tanto nell’Atlantico meridionale quanto nel Pacifico.
  22. Si pensi a titolo esemplificativo alla Royal Proclamation (1763), e alla lunga visita di José de Gálvez in Nuova Spagna, ove il giurista giunge nel 1765 al fine di elaborare, sulla base di una diretta esperienza americana, un piano organico di riforme. Due decenni dopo, nel 1776 della Dichiarazione d’Indipendenza americana, sarebbe stata disposta la creazione delle “Provincias Internas” del Nord America spagnolo e del Vicereame del Río de la Plata.
  23. Cfr. Morelli 2008b. Sulla natura atlantica dell’anti-eurocentrismo degli ambienti coloniali favorevoli all’indipendenza, si può vedere ancora Benzoni 2012, 167–186.
  24. Cfr. infra. Interessante il caso del gesuita messicano Torres, e del suo lungo legame con Monaldo Leopardi, di cui si sta occupando Stefania Triachini.
  25. L’opera dell’olandese Cornelius de Pauw (1739–1799), com’è ben noto, costituisce il fulcro della polifonica ricostruzione di Gerbi, passata a un ampio vaglio critico nello studio di Cañizares Esguerra 2007.
  26. De Pauw è anche autore di articoli per il Supplément dell’Encyclopédie e delle Recherches sur les Égyptiens et les Chinois (1774), cui avrebbero fatto seguito le Recherches sur les Grecs, pubblicate nel 1787.
  27. Nos systèmes les plus raisonnables ne peuvent jamais s’enchainer assez exactement entre eux pour former un cercle parfait, qui embrasse l’immensité des phénomènes: il reste toujours des vides par où les erreurs & les plus grandes erreurs s’échappent, afin d’avertir sans cesse l’esprit humain de son impuissance d’accoutumer le Philosophe à douter malgré lui, malgré le péchant qui l’entraine à décider” (de Pauw 1768, XI–XII).
  28. Considerazioni che ricordano, solo fino a un certo punto paradossalmente, il Muratori de Il cristianesimo felice. Il philosophe denuncia in particolare a più riprese l’influenza negativa “des contradictions et des observations vicieuses des voyageurs” (de Pauw 1768, IX) ai fini della costruzione di una visione autenticamente “scientifica” del Nuovo Mondo. Non meno marcata risulta la diffidenza, venata di anticlericalismo, di de Pauw nei confronti della letteratura missionaria. Sulla reazione dei gesuiti spagnoli e ispanoamericani espulsi da Carlo III, v. infra.
  29. Il testo contiene anche la nota dissertazione sull’America e gli Americani di D. Pernety. Sull’autore e il suo ruolo nel “decollo” europeo della “Disputa”, cfr. Gerbi 2000, 117–147.
  30. A eccezione del Canada.
  31. Non vanno naturalmente dimenticate le indipendenze di Haiti e del Brasile.
  32. Com’è ben noto, diverso è il quadro delle relazioni in seno al subcontinente indiano.
  33. Cfr. Mikhailova e Steele 2008, con particolare riferimento a M. Ikuta, Changing Japanese-Russian Images in the Edo Period, pp. 11–29.
  34. Con riferimento alla Spagna, cfr. De Vos 2007.
  35. “Si ricorda che la denominazione ‘Indie’, forgiata in evidente dipendenza dall’obiettivo di fondo del viaggio di Colombo – il raggiungimento cioè dei ricchi mercati asiatici e l’aper­tura di relazioni politico-diplomatiche in funzione antimusulmana con le potenze orientali, in primis il vagheggiato Gran Khan di Marco Polo, s’impone nell’uso delle diverse lingue vol­gari sino al diciottesimo secolo. Nel Settecento, nel quadro delle profonde trasformazioni che inve­stono il mondo atlantico, comincia a prevalere l’adozione del toponimo umanistico America, a segnare, sul piano lessicale, l’acquisita autonomia di tale grande spazio. Lungo l’età moder­na, si è fatto ampio ricorso anche alla denominazione ‘Nuovo Mondo’, a sottolineare la pecu­liare natura del territorio, sconosciuto agli Europei fino alla fine del Quattrocento, ‘altro’ per civiltà e cultura rispetto al canone della Christianitas latina eppure, al tempo stesso, orizzonte principe delle prime esperienze di globalizzazione di quel medesimo canone proprio a partire dal sedicesimo secolo” (Benzoni 2012, 44 [nota]).
  36. Per una panoramica in merito alla circolazione atlantica di questi temi e alla loro declinazione locale, cfr. Morelli 2008a. Per un confronto fra America spagnola e mondo angloamericano in merito ai concetti di emisfero e di razza, vedi anche Drake 2004.
  37. Non dobbiamo dimenticare che indipendenti sono ancora anche ampi settori del mondo amerindiano, per i quali, con il “senno di poi”, le indipendenze americane si configurano, nel Nord e nel Sud America, come la svolta che prelude al all’etnocidio, al genocidio, al dominio e all’alienazione.
  38. Dell’Europa “atlantica”, si potrebbe aggiungere.
  39. La vicenda editoriale delle Notes on Virginia, pubblicate per la prima volta a Parigi nel 1785, è particolarmente complessa. Per un quadro della maturazione del testo, cfr. la nuova edizione postuma del 1853 le cui dimensioni riflettono il maturare della vocazione “emisferica” di Jefferson. V. ancora Bauer 2009.
  40. Su questo punto, si può vedere Benzoni 2012, 187–207, passim.
  41. Stimolante, per la prospettiva interamericana, il già citato contributo di Bauer 2009.
  42. Come è stato osservato, fra Sette e Ottocento, nel mondo angloamericano, il criterio razziale comincia a configurarsi come “a particularly colonial (Creole) rather then imperial (European) razionalization of difference” (Bauer 2009, 75).
  43. Con il Trattato di San Lorenzo, noto negli USA come Pinckney Treaty.
  44. Coprotagonista suo malgrado, con i nativi americani, nell’ambito della costruzione della retorica etnocentrica del “Destino manifesto”.
  45. In questo quadro, è fondamentale l’influenza della costituzione “confessionale” di Cadice del 1812.
  46. Le profonde trasformazioni geopolitiche, e nelle relazioni fra “euroamericani” e “Indiani” che interessano il Nord America dopo il 1763, lo slancio dell’espansionismo degli imperi europei e dei neonati Stati Uniti in Nord America dopo il 1783 e il carattere globale, per i teatri intercontinentali interessati, assunto dal conflitto fra Francia e Inghilterra nell’età rivoluzioni atlantiche, costituiscono la cornice di riferimento, cronologico e spaziale, della guerra angloamericana del 1812. Una guerra che ha diviso profondamente le élites politiche e le società dei nascenti Stati Uniti, mettendo da un lato a dura prova la tenuta interna e internazionale della giovane repubblica, e trasformandosi dall’altro in un delicato fronte aperto per l’Inghilterra impegnata nella fase finale dello scontro con Napoleone. Oggetto di un’ancipite considerazione nell’immaginario collettivo, e di un approccio storiografico volto ora a evidenziarne il carattere, per dir così, premonitore in relazione ai futuri svolgimenti delle vicende nazionali statunitensi ora invece il carattere circoscritto nell’ambito della storia patria, la guerra del 1812 racchiude in effetti in sé tutte le dimensioni di scala appena evocate. Valga qui solo ricordare che la tenuta di fronte agli inglesi della giovane repubblica, e la contestuale breccia aperta nella frontiera spagnola in Nord America, avrebbero contribuito in modo significativo al successivo imponente processo di “americanizzazione” degli Stati Uniti. Un processo di cui la dichiarazione Monroe costituisce per molti versi la formulazione a uso internazionale, e l’etnocidio delle popolazioni native del Nord America il brutale rovescio della medaglia.
  47. Fra i punti all’ordine del giorno, la denuncia della condotta della Spagna nei secoli della colonia (leyenda negra), la rivendicazione dell’indipendenza di Cuba, di Portorico, delle Canarie e delle Filippine, l’abolizione della schiavitù, e il coinvolgimento degli USA per arrivare a conferire all’America indipendente una dimensione emisferica che scoraggi i tentativi di Restaurazione di Ferdinando VII. Per una prima introduzione, attenta alle nascenti dinamiche interamericane, Reza 2004.
  48. “Si pensi ad Alexis de Tocqueville, il quale non ha mancato di osservare come, mentre l’Europeo ‘quitte sa chaumière pour aller habiter les rivages transatlanti­ques, … l’Américain qui est né sur ces mêmes bordes s’enfonce à son tour dans les solitudes de l’Amérique Centrale … Ce double mouvement d’émigration ne s’arrête jamais: il commence au fond de l’Euro­pe, il se continue sur le grand Océan, il se suit à travers les solitudes du nouveau monde. Des millions des hommes marchent à la fois vers le même point de l’horizon: leur langue, leur religion, leurs mœurs différent, leur but est commun. On leur a dit que la fortune se trouvait quelque part vers l’Ouest, et ils se rendent en hâte au-devant elle’” (citato in Benzoni 2012, 179).
  49. Guerra ispanoamericana, con l’acquisizione delle Filippine.
  50. Apertura del canale di Panama.
  51. Intervento nella Prima guerra mondiale a fianco dell’Intesa.
  52. Di fronte alla crisi messicana, la diplomazia del neonato Regno d’Italia si allinea alla diffidenza europea nei confronti del repubblicanesimo prevalente nel Nuovo Mondo. A simili orientamenti si oppone Giuseppe Garibaldi, la cui esperienza atlantica è ben nota, al punto da valergli il titolo di “eroe dei Due Mondi”, che appoggia la resistenza dei “fratelli messicani”.

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